Padre Romanelli è il parroco cattolico di Gaza, nella sua chiesa sono rifugiate 500 persone: “Manca tutto, ma non la fede: qui Gesù ci protegge”
La gente non sa dove andare, la casa è diventata la strada. E la prospettiva, almeno secondo le intenzioni israeliane, è che se ne vada da Gaza. Ci sono palestinesi che pensano a un futuro fuori dalla Striscia, spiega padre Gabriel Romanelli, argentino, parroco cattolico di Gaza, ma molti vogliono restare, anche se le condizioni in cui è stata ridotta la regione non sono certo favorevoli alla permanenza.
La comunità cristiana, qui, non vanta grandi numeri: un migliaio di persone; se si pensa ai cattolici, poi, sono ancora meno. Nonostante le sofferenze che stanno subendo, sono testimoni di una speranza che nasce proprio dalla loro fede.
Nella chiesa che è diventata rifugio per 500 persone pregano anche tre, quattro ore al giorno, mentre fuori si sentono i rumori delle bombe. Una preghiera che chiede a Dio (e ai governanti) di mettere fine a una situazione inaccettabile, inumana.
A Gaza sembra che non ci sia limite al peggio, dopo la tregua si è tornati alla guerra. Come affronta la comunità cristiana questa situazione? Si può mantenere la speranza là dove sembra esserci solo distruzione e morte?
Per i cristiani in Medio Oriente, non soltanto a Gaza, la fede è veramente un punto di riferimento, spirituale ed esistenziale. E le parrocchie sono un luogo di ritrovo e d’incontro fondamentale. In questo momento questo discorso vale ancora di più. Nessuno oserebbe, tra i cristiani, rimproverare Dio per quello che sta succedendo. Anzi, succede il contrario: si sentono protetti da Gesù.
Quando all’inizio della guerra, nell’ottobre 2023, la gente ha ricevuto l’indicazione di sgomberare le case, si è detta: “Non c’è nessun luogo sicuro in tutta la Striscia di Gaza, andiamo da Gesù”. E sono rimasti qua, nella nostra parrocchia.
Quante persone avete ospitato?
In un certo momento il numero dei rifugiati era superiore a 700. Adesso, contando i bambini e le anziane di Madre Teresa, le persone con disabilità, che sono musulmane, all’interno del nostro compound siamo all’incirca in 500. Quindi la fede è un punto di riferimento.
E le preghiere sono il termometro di questa fede enorme. Ogni giorno si prega tre o quattro ore in chiesa, in silenzio davanti al Santissimo Sacramento. Poi ci sono la Messa, il rosario. E non partecipano soltanto gli anziani, gli adulti, ma anche i giovani, gli adolescenti, i bambini; tutto questo ci dà veramente molta forza, anche se non ci toglie la sofferenza e il dolore di essere in un momento di guerra.
Come si sta muovendo la parrocchia in un periodo di così grande difficoltà?
Cerchiamo di sostenere le persone, di aiutare tutti, grazie al Patriarcato latino di Gerusalemme, la nostra diocesi. Non abbiamo aiutato solo i cristiani, ma anche migliaia di famiglie di musulmani che vivono intorno alla chiesa.
Su più di due milioni di cittadini nella Striscia di Gaza, i cristiani prima della guerra erano poco più di mille, per la precisione 1.017. Il rapporto con i vicini, con le famiglie del quartiere è sempre stato molto stretto, molto forte. Continuiamo a cercare di aiutarle, con il cibo, con l’acqua, con quello che abbiamo.
Come rispondete alle esigenze delle persone, proprio ora che non arrivano più aiuti?
Siamo riusciti ancora una volta a purificare dell’acqua di un pozzo. Però ce n’è un grande bisogno in tutta Gaza. La cosa più importante, tuttavia, è che i responsabili di questa situazione diano veramente un segno di speranza, di vera speranza, affinché questa gente possa vivere, e non solo sopravvivere, nella sua terra, che è Gaza.
Purtroppo ora per Gaza si parla di espulsione dei palestinesi dal territorio, presentandola come trasferimento volontario. Ma la gente della Striscia, nonostante le distruzioni e tutto quello che manca, vuole restare?
Vorrei sapere cosa significa volontariamente. Se una persona è obbligata dalle circostanze a decidere in una sola direzione, dov’è la volontarietà? Molti vorrebbero rimanere. D’altra parte, per il momento, ma è così già da quasi un anno, le frontiere sono assolutamente chiuse. È stata fatta solo qualche eccezione per chi ha il doppio passaporto, per feriti o malati.
Per il resto le frontiere sono rimaste chiuse. C’è chi vorrebbe andarsene per dare un futuro ai propri figli, altri che si chiedono: “Ma cosa facciamo fuori da qui?”. Altri ancora che non sanno come comportarsi, perché i bombardamenti sono così intensi che non hanno la forza di decidere. Qui, infine, abbiamo anche un gruppo numeroso di anziani, malati.
Quanto sono intensi i bombardamenti?
I bombardamenti sono quotidiani, si sentono notte e giorno, alcuni hanno colpito molto vicino, a 200-300 metri da noi: qualche scheggia è arrivata anche qui. La terra trema tante volte. Noi, comunque, per adesso stiamo bene.
Vi arrivano gli aiuti?
L’ultimo carico ci è arrivato prima che finisse il cessate il fuoco, grazie al Patriarcato latino. L’abbiamo distribuito alle famiglie del quartiere, raggiungendone più di 20mila. Ma è stato più di un mese fa. Adesso qui le persone razionano tutto. Ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno bisogno assolutamente di tutto, tantissimi nella città di Gaza che vivono con una tenda per la strada.
Come sopravvivono materialmente?
Mangiano quello che possono, dormono dove riescono, se devono andare ai servizi si adattano lì dove sono. La città è piena di spazzatura, di acqua delle fogne. È come ha detto papa Francesco qualche giorno fa: “Sono condizioni inimmaginabili”.
Con i viveri che avete adesso fino a quando potrete resistere?
Non saprei dirlo, dipende. Noi distribuiamo quello che abbiamo non soltanto alle 500 persone che sono qua dentro, ma anche alle persone che sono fuori. Già questo è un miracolo, però non sappiamo la cifra esatta dei giorni per i quali ci basterà il cibo. Speriamo solo che arrivi la tregua, che è necessaria per tutti.
Nella Striscia la comunità cristiana come convive con quella musulmana?
Il legame fra cristiani e musulmani è molto forte a Gaza e in Medio Oriente. La Chiesa cattolica, nonostante il numero esiguo di fedeli (135, religiosi inclusi; gli altri cristiani sono greci e ortodossi), gestiva tre scuole, con 2.200 alunni, la maggior parte musulmani.
Nella Striscia ci sono una decina di cliniche della Caritas, del Patriarcato latino, l’associazione per i bambini farfalla, che coinvolge 66 famiglie, il centro di formazione dei ragazzi Tommaso d’Aquino. Prima della guerra, grazie alle cliniche, sono state raggiunte 20mila persone. Grazie a Dio, insomma, la Chiesa ha aiutato decine di migliaia di persone. Il rapporto con la gente è molto forte: cerchiamo di stringere legami di pace e giustizia, con le parole e con le opere.
Come riuscite a celebrare la Pasqua in questa situazione?
Le celebrazioni della Pasqua sono molto sentite, nonostante il dolore nell’anima. Quando sentiamo i rumori dei bombardamenti sappiamo che non si tratta di un film o di un video. In questo momento, mentre parliamo, ho sentito una forte esplosione. E quando succede, dopo qualche minuto vediamo quattro, cinque, sette morti e tanti feriti.
Allo stesso tempo, sappiamo che la forza del Signore ci aiuta a rimanere saldi nella vera speranza, nella vera carità, aspettando che accolga le buone intenzioni delle nostre preghiere e che converta i cuori dei responsabili delle parti in causa: bisogna arrivare a una tregua, una situazione così non è accettabile. Non aiuta né Israele né la Palestina. Auguriamo la liberazione di tutti gli ostaggi, dei prigionieri, l’arrivo massiccio di aiuti umanitari: la pace è frutto della giustizia, non dell’ingiustizia.
(Paolo Rossetti)
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