Nucleare sì, nucleare no, nucleare forse. Nucleare verde, no nero, forse viola. È nuovo, ma va è vecchio.
Al solito, c’è un po’ di confusione sul tema. Proviamo a chiarire e a connettere qualche punto.
La Commissione europea il 31 dicembre scorso ha inviato la propria proposta di complemento della cosiddetta “Tassonomia verde” al gruppo di esperti degli Stati membri. A seguire, sarà condivisa anche con il Consiglio europeo e poi con il Parlamento. Ricordiamo che ciò che è già scritto, e ciò che verrà integrato a breve in questo documento, “guiderà e mobiliterà gli investimenti privati nelle attività che sono necessarie per raggiungere la neutralità climatica nei prossimi 30 anni”. Vale a dire sarà la guida “finanziaria” per le politiche energetiche dei paesi europei.
Come anticipato su Twitter dalla stessa von der Leyen in ottobre, sia il gas naturale sia il nucleare saranno in qualche modo riconosciuti nella Tassonomia, nei prossimi giorni vedremo a quali condizioni.
Consiglio europeo e Parlamento europeo avranno poi da 4 fino a 6 mesi di tempo per eccepire e nel caso votare per un annullamento della proposta della Commissione, a maggioranza qualificata il primo e a maggioranza semplice il secondo dei due organi istituzionali.
Il fatto che la Commissione “consideri che ci sia un ruolo per il gas naturale e per il nucleare, quali mezzi per facilitare la transizione verso un futuro basato prevalentemente sulle rinnovabili” appare al tempo stesso scontato e sorprendente.
Scontato per il nucleare, perché dal punto di vista tecnico-scientifico al pari delle rinnovabili praticamente non emette gas serra nell’intero ciclo di vita. Scontato per il gas, perché dal punto di vista industriale garantisce la flessibilità di produzione della quale la rete elettrica ha bisogno per sopperire ai buchi di produzione delle rinnovabili, che per loro natura non sono programmabili.
Sorprendente, dal punto di vista politico, perché la presa di posizione della Commissione invita ad un bagno di realismo, in una stagione nella quale molti sulla spiaggia europea sembrano strillare parole d’ordine tanto affascinanti quanto pericolose, se non adeguatamente valutate in tutte le loro implicazioni, incluse quelle economiche, industriali, geopolitiche.
Si intuisce che nei mesi passati ci sia stata aspra battaglia sul tema, soprattutto sul nucleare, in particolare tra Germania e Francia. Ciascuna ha capeggiato un gruppo di Paesi e inviato alla Commissione la propria lettera. La prima, contro il nucleare nella Tassonomia, sottoscritta anche da Austria, Danimarca, Lussemburgo e Spagna. La seconda, a favore del riconoscimento del ruolo dell’atomo, co-firmata dalla Finlandia e dal blocco dell’Est Europa (Repubblica Ceca, Bulgaria, Croazia, Ungheria, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia).
Poi, forse, qualcuno a Berlino ha fatto i conti: non solo sui voti in Consiglio e in Parlamento, ma anche sulle emissioni di CO2, decisamente aumentate negli anni recenti in Germania, per la chiusura delle centrali nucleari e per un programma sulle rinnovabili che non ha dato i risultati sperati. Sia in termini di installazioni sia in termini di produzione di energia. Fino all’assurdo: essere “costretti” a riattivare vecchie centrali a lignite, il carbone più “sporco” in termini di emissioni. Anzi, addirittura fino a radere al suolo 17 villaggi vicino a Düsseldorf, con tanto di monastero del 1400, per far posto alla miniera a cielo aperto di Garzweiler.
Così, in modo un po’ schizofrenico, i tedeschi chiudono tre centrali nucleari “carbon-free” per affidarsi alla lignite e, in prospettiva, al gas naturale russo che arriverà dal nuovo gasdotto Nord Stream 2.
C’è quindi da aspettarsi che alla fine del processo e delle discussioni politiche che inevitabilmente sorgeranno, nucleare e gas saranno considerati degni di ricevere il “bollino verde” e pertanto non saranno ostracizzati sul mercato finanziario, passo fondamentale per garantire gli investimenti necessari.
Ma per fare cosa? Limitandoci al nucleare, per due azioni fondamentali. Il rinnovo del parco reattori europeo, tra i più grandi al mondo (oltre 170 reattori) è in grado oggi di garantire oltre la metà di tutta l’energia elettrica carbon-free europea. E lo sviluppo di reattori innovativi: dagli Small Modular Reactors a quelli di IV generazione. Tecnologie che potrebbero garantire non solo un sensibile aumento del livello di sicurezza, ma anche la possibilità di “bruciare” i rifiuti radioattivi, riducendo la durata della loro radiotossicità da 100mila a 300 anni. Così non sarà più necessario costruire depositi geologici profondi, come quello che entrerà in funzione a breve in Finlandia, il primo al mondo. Tutto ciò in attesa di avere a disposizione nel medio-lungo termine la soluzione della fusione, una volta risolte le impegnative sfide scientifiche e tecnologiche e dimostrata la fattibilità industriale.
E l’Italia?
Può fare la sua parte. Innanzitutto, dovrà prendere posizione sulla Tassonomia. È probabile che la sua posizione risulti alla fine “agnostica”: non contraria all’inclusione di gas e nucleare, per chi li vorrà utilizzare in Europa, ma ferma sulla propria linea “verde” di spinta decisa alle rinnovabili. Quindi più vicina alla Francia che alla Germania.
Certamente attenta al mantenimento del ruolo del gas nella strategia di transizione, fonte sulla quale ha investito moltissimo dopo il primo referendum nucleare post-Chernobyl e che garantisce sicurezza e stabilità ad una rete elettrica che altrimenti sarebbe troppo impegnativo gestire e sviluppare, nel transitorio.
E forse attenta anche a cosa accadrà in Europa e nel mondo sul versante del nuovo nucleare.
Sarebbe auspicabile una “attenzione attiva” sul nucleare di nuova generazione, per due motivi.
Il primo: perché ha qualcosa da dire. Nonostante tutto, industria, ricerca e formazione anche dopo Fukushima hanno continuato a lavorare e a collaborare a livello internazionale su tutte e tre le innovazioni tecnologiche prima citate. Soprattutto il comparto industriale, che già ha raggiunto i primi successi nel settore della fusione, potrebbe trovare opportunità molto interessanti nell’ambito di sinergie e progetti europei, in particolare con Francia e Romania.
Il secondo: perché il problema è globale e non domestico e un possibile contributo nucleare sarebbe da sviluppare a livello europeo, non necessariamente italiano. È infatti irrealistico pensare a una ripresa dell’opzione nucleare nel nostro Paese, certamente non nel breve termine. Non ci sono le condizioni.
E si badi che i limiti non sono tecnologici o industriali. La sicurezza e i rifiuti radioattivi sono aspetti che già oggi in Europa non sono critici, tanto meno lo saranno con i reattori innovativi. No, le criticità italiane sono di altra natura. Politiche, anzitutto. Dotarsi di tecnologia nucleare è una scelta strategica di Paese, di lungo periodo. Le nuove centrali nucleari funzioneranno 60-80 anni. È una tecnologia complessa che richiede certo grandi investimenti ma soprattutto il funzionamento di un sistema articolato, legislativo-normativo-industriale-economico-scientifico-istituzionale di qualità e stabile nel tempo. Tutto questo richiede una visione di lungo periodo e una condivisione politica duratura. Un approccio bipartisan. Non è tema che possa essere gestito a colpi di referendum, pro o contro che siano.
A breve il primo banco di prova, che mostrerà quanto siamo pronti ad affrontare seriamente il tema in Italia: la discussione che si svilupperà in occasione del documento della Commissione sulla Tassonomia e le decisioni che saranno prese a valle della decisione.
Nel frattempo, in questo decennio, lasciamo che industria, ricerca e accademia lavorino in Europa allo sviluppo delle nuove tecnologie. Perché se si vuole investire per ottenere soluzioni utili nel prossimo decennio, questo è il tempo.
Negli anni 70 i francesi, dopo la crisi petrolifera, decisero di investire sul nucleare e svilupparono la loro tecnologia, realizzando il più grande parco reattori europeo. Oggi possiamo chiaramente verificarne i frutti: sono il paese più avanti nella transizione ecologica e hanno l’energia elettrica più a buon mercato per cittadini e imprese dell’intera Europa, elettricità che usano nelle abitazioni anche per la cucina e il riscaldamento. Non soffriranno, come noi e altri in Europa, dell’incremento congiunturale stratosferico del prezzo del gas.
Questo non significa che noi si debba ripercorrere l’esempio d’oltralpe. Ma almeno trarne qualche insegnamento.
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