Il ripristino delle relazioni con l’Iran ha rilanciato i piani dell’Arabia in Medio oriente. E Bin Salman vuole sfruttare il fattore Trump

Dal 2020, la strategia saudita nel quadrante mediorientale di fede sunnita si è lasciata alle spalle la politica assertiva degli anni precedenti. L’evento che consolidò il nuovo approccio del principe saudita Mohammed bin-Salman fu la restaurazione, grazie alla Cina  nel 2023, dei rapporti diplomatici con l’Iran, in crisi sin dalle primavere arabe.



In questo modo Riyad riuscì a rilanciare i rapporti anche con Paesi alleati dell’Iran. La nuova strategia saudita nel Medio Oriente ha l’obiettivo di proporsi come Paese guida del mondo islamico, rafforzando l’impegno politico, diplomatico ed economico in contesti appartenenti storicamente alla sfera di influenza di Teheran.



Per questo i sauditi, oltre a monitorare attentamente la situazione libanese, che nel breve termine dovrebbe rimanere invariata, si volgono alla risoluzione di due scenari non facili: da un lato la distensione con l’Iran e dall’altro la normalizzazione dei rapporti con Israele.

Nello scacchiere l’Arabia Saudita sta lavorando con l’appoggio di tutto il blocco sunnita, compresa la Turchia, per stabilizzare tutto il Medio Oriente, soprattutto in ottica di  Vision 2030, il piano di Riyad per trasformarsi da petro-Stato in Stato modernizzante, ampliando gli apparati statali.

Per quanto riguarda Gaza, tutt’ora Israele non intende retrocedere. Questo allontana la possibilità di un cessate il fuoco. Inoltre risulterà sempre più difficile per i sauditi impedire l’acquisizione di maggiore controllo territoriale da parte delle Forze di difesa israeliane (IDF), in Siria e in Libano e scoraggiare la reazione iraniana, anche se l’asse della resistenza è molto in difficoltà, specialmente dopo la caduta degli Assad.



Nel dossier iraniano è entrato a gamba tesa anche Donald Trump, con le pesanti pressioni politico-economiche contro il nucleare iraniano e con gli altrettanto pesanti bombardamenti sui proxy houthi yemeniti. Iniziative che complicano le cose per Riyad, che non vorrebbe prendere una posizione chiara specialmente sul riconoscimento di Israele senza compromettere gli accordi di sicurezza con Washington.

Senza contare che l’eventuale atomica iraniana scatenerebbe una corsa nucleare in tutta la regione. Questo allontanerebbe gli obiettivi di ammodernamento di Mohammed bin Salman apportando instabilità nel regno, in un Paese in cui l’opinione pubblica è già scossa dalla situazione palestinese.

Senza questi problemi, Riyad potrebbe aumentare la propria influenza politica ed economica nel quadrante, come già accade in Siria e Turchia e facilitando gli accordi di sicurezza con gli USA.

Ci aiuta a capire maggiormente la situazione la notizia, riportata da Reuters, che i sauditi non intendono cercare rialzi dei prezzi petroliferi con tagli dell’offerta, potendo sopportare cali di prezzi perduranti. Anzi, pare che da Riyad, approfittando dei minori costi per produrre il proprio greggio, intendano proseguire ad aumentare la produzione per acquisire ulteriori fette di mercato.

All’inizio del mese OPEC+ ha annunciato che avrebbe anticipato la prevista eliminazione graduale dei tagli volontari alla produzione di petrolio da parte del cartello, aumentando la produzione di 411mila barili al giorno a maggio, pari a tre incrementi mensili. Questo ci dice che i sauditi potrebbero essere pronti a rinunciare al loro ruolo di produttori di riserva, visto che da tempo, troppo secondo Riyad, l’Arabia ha compensato lo sforamento delle quote dell’OPEC+ da parte di altri produttori tra cui Kazakistan, Emirati Arabi Uniti e Iraq, che continuano a pompare petrolio in eccesso.

Secondo Bloomberg, ma non c’era bisogno di dirlo, vi sarebbero anche delle motivazioni geopolitiche, con i sauditi che cercano di compiacere gli USA, avendo Washington chiesto all’OPEC di intervenire per abbassare i costi del carburante aumentando ulteriormente la produzione.

E questo per due motivi. Primo, perché l’aumento di produzione mette in crisi i produttori, con costi di produzione maggiori. Secondo, perché tale aumento mette ancora più in crisi tutti i Paesi sotto embargo, vedi Russia ed Iran, che vendono a prezzo di contrabbando. Per gli USA il discorso è un po’ diverso: il calo dei prezzi potrebbe abbassare i costi delle importazioni, diminuire l’inflazione e dare più forza alle pressioni sui Paesi sotto embargo.

Il calo dei prezzi petroliferi però potrebbe scoraggiare i produttori USA a proseguire la produzione del petrolio di scisto (Shale Oil) che ha costi maggiori. MBS ed il suo staff negli ultimi anni hanno dimostrato ottime capacità nelle relazioni internazionali; se riusciranno a mantenere il trend positivo tutta l’area ne trarrà stabilità e benessere.

 

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