L'Europa continua a crescere molto poco, soprattutto guardando a quello che avviene, per esempio, negli Stati Uniti
L’economia europea batte il passo. Il terzo trimestre si è chiuso con un netto rallentamento, ma di qui a fine anno rischiamo un vero e proprio arresto. Il bollettino della Bce pubblicato giovedì scorso parla di “elevata incertezza, aumento dei dazi effettivi, rafforzamento dell’euro e maggiore concorrenza a livello mondiale”, i quattro cavalieri che annunciano non certo un’apocalisse, ma molto probabilmente una stagnazione. Come considerare, del resto, un aumento medio del Pil pari a un misero 0,2%?
Si è scritto di un andamento a due velocità con Germania e Italia già ferme, mentre Francia, Spagna e Paesi Bassi crescono (rispettivamente +0,6, +0,5% e +0,4%). Ma ci vuole un grande ottimismo per definire crescita spostamenti del prodotto lordo al limite dell’errore statistico. Ancor più se prendiamo a paragone gli Stati Uniti i quali viaggiano attorno a un aumento del 4% pur con tutte le turbolenze provocate dall’instabile Donald Trump il quale, allarmato per l’impatto sull’inflazione, ha ridotto i dazi su carne bovina, pomodori, caffè e banane, generi alimentari la cui produzione nazionale è insufficiente o inesistente.
Se vogliamo parlare di due velocità, allora, dobbiamo guardare alle due sponde dell’oceano sempre più lontane non solo in politica estera o nelle alte tecnologie, ma anche nella congiuntura economica. Le stravaganze trumpiane hanno indebolito il dollaro a scapito dell’Europa, mentre la stessa divergenza nell’andamento dell’inflazione rispecchia la differenza di passo.
La Banca centrale europea nella sua ultima riunione ha sottolineato con soddisfazione che l’andamento dei prezzi nell’Eurolandia ha ormai raggiunto il fatidico obiettivo del 2%. Tuttavia a guardare bene è un obiettivo virtuoso raggiunto a costo di un vizio di fondo, cioè la sostanziale stasi produttiva. I prezzi americani salgono di circa il 3% perché aumentano i salari e la domanda interna, al netto dell’impatto dei dazi che sarà più chiaro di qui alla fine dell’anno.

Il bollettino della Bce spiega che il terzo trimestre è stato sostenuto (se così vogliamo dire) dai servizi, i quali tuttavia sono previsti in rallentamento, mentre il comparto manifatturiero è in difficoltà. Ha influito senza dubbio il commercio mondiale visto che nell’insieme l’Europa è fortemente dipendente dall’export, ma la politica tariffaria è un’aggravante, non la causa principale.
In Germania il prodotto lordo è al livello del 2019, ciò vuol dire che l’economia è ferma da ben sei anni. In Italia non ha ancora recuperato del tutto il livello pre-pandemia, mentre la produzione industriale scende dal febbraio 2023 con una pausa a settembre. Se prendiamo l’indice dell’Istat, fatto 100 il 2021 siamo sotto di circa nove punti.
Se guardiamo alla Francia, quel +0,5% è determinato da una tenuta della domanda estera e da un aumento della domanda interna sulla quale, però, peserà nei prossimi mesi il giro di vite della politica di bilancio per far scendere il disavanzo pubblico dal 5,8% del Pil con il quale si è chiuso il 2024 al 3% uscendo così dalla procedura europea d’infrazione.
Il vero Paese virtuoso è la Spagna grazie a politiche dell’offerta che hanno consentito di tenere bassi i costi dell’energia (l’elettricità costa circa la metà rispetto all’Italia) e alta la produttività delle imprese, lo dimostra l’industria dell’automobile al collasso in Italia e Germania mentre in Spagna le fabbriche continuano a lavorare al massimo. Tuttavia anche “l’eccezione iberica” è offuscata dall’incertezza del commercio mondiale e dall’intero scenario geopolitico.
Aspettiamo speranzosi i nuovi dati di Eurostat, ma siamo a metà novembre e non c’è più tempo per recuperare, l’ultima occasione sarà il Natale, insomma puntiamo sulla tredicesima e non è una battuta ironica. C’è poco da ridere, del resto, se guardiamo al profluvio di parole dette e scritte a proposito di quel che bisognerebbe fare e non è stato fatto.
È sempre antipatico ripetere il cahier de doléances, ma non fa male ricordare quanti impegni sono stati presi e non rispettati. Sappiamo che non esiste una politica economica europea perché non esiste un bilancio europeo, dunque lo stimolo all’economia viene dai singoli Paesi, quelli che hanno i conti in ordine, quindi spazi per intervenire, e dalla politica monetaria.
La Bce quest’anno ha portato i tassi d’interesse in linea con l’inflazione, lo ha fatto con gradualità e con una prudenza che a molti (noi compresi) è sembrata eccessiva. Ma a questo punto non può fare molto di più, i tempi dei tassi zero sono finiti.
La Commissione europea ha raccolto ponderosi rapporti (citiamo soprattutto quelli presentati da Enrico Letta e da Mario Draghi) che indicano obiettivi raggiungibili con gli strumenti esistenti e nei campi propri delle istituzioni europee. Sono tutte politiche dell’offerta, dal mercato unico dei capitali a un piano per l’automotive, dalla difesa alle nuove tecnologie. Per ora è un’offerta sulla carta, l’Ue si è data tempo, da tre a cinque anni, ma con la velocità con la quale si muove il mondo intero, per la tartaruga Europa il futuro è già domani.
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