La vera novità della riforma sta nei due CSM e nell'alta corte disciplinare che dovrà valutare i magistrati. La macchina della giustizia non è toccata

Come noto, il Senato ha approvato in quarta e ultima lettura il disegno di legge costituzionale dal titolo “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”, segnando una svolta storica nell’assetto della magistratura italiana, alimentando un acceso scontro tanto fra gli addetti ai lavori, quanto fra le diverse fazioni politiche.



In attesa che si pronuncino gli elettori, chiamati per previsione costituzionale a dire la loro sulle modifiche che riguardano le previsioni della Carta costituzionale, occorre cercare di fare chiarezza, scrostando dal dibattito gli eccessi e i qualunquismi che inevitabilmente stanno inquinando il confronto fra le opposte opinioni.



Si è già lungamente parlato, anche su questo giornale, di come la riforma modifichi alcuni articoli della Costituzione, istituendo un Csm giudicante e un Csm requirente, entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica. Oltre i membri di diritto (rispettivamente, il primo presidente della Corte di Cassazione e il procuratore generale della Cassazione), gli altri componenti saranno scelti per un terzo tramite sorteggio da un elenco di professori ordinari e avvocati con almeno 15 anni di esercizio e per due terzi tra magistrati giudicanti o requirenti, sempre estratti a sorte.

L’ulteriore e forse più rilevante novità da un punto di vista pratico, riguarda l’istituzione di un nuovo organismo: l’Alta corte disciplinare, che avrà competenza sui procedimenti disciplinari riguardanti magistrati ordinari, giudicanti e requirenti.



Ciò posto, occorre provare a sfatare qualche falso mito e a fissare le reali ricadute di tali modifiche.

Niente affatto verosimile si palesa l’assunto secondo cui le riforma in questione renderà i pubblici ministeri burocrati e condizionati dalla politica, svuotando il principio di uguaglianza dei cittadini e riportandoci al passato, in considerazione del venir meno dell’indipendenza della magistratura. Come affermato da Di Pietro in una recente intervista, già adesso, se un pm vuole assecondare il potere politico, può farlo.

In realtà, le votate modifiche non incidono minimamente sull’autonomia del sistema giudiziario, che resta sottratto al controllo del potere politico e a ogni forma di condizionamento, restando fermo il principio che l’ordine giudiziario, per garantire imparzialità e tutelare i diritti di tutti, è soggetto soltanto alla Costituzione e alla legge. Ciò al netto della consueta assenza di una vera riflessione su come la magistratura abbia in questi ultimi decenni gestito la sua autonomia e indipendenza.

Non di meno, non risulta corrispondente al vero che con questa riforma si prevede una trasformazione radicale e profonda della magistratura italiana, attraverso l’espulsione del pubblico ministero dalla giurisdizione. Resta infatti nel codice la previsione che il Pm debba anche cercare le prove a favore dell’indagato: che poi l’abbia fatto in rari casi e che soprattutto, se non lo fa, non sia passibile di alcuna sanzione, resta il vero nodo delle indagini preliminari.

Salvo rari casi, i 35 anni di applicazione del nuovo codice ci hanno mostrato come i Pm non siano stati terzi, imparziali ed equidistanti tra le garanzie degli indagati e la tutela delle persone offese.

Meramente suggestiva appare poi la tesi che essi ora diventeranno dei burocrati, ponendo le premesse per il controllo della magistratura inquirente da parte della maggioranza di governo, che indicherà le priorità investigative e sceglierà quali reati perseguire e cosa portare all’attenzione dei giudici.

A baluardo di tali pericoli, resta la previsione dell’obbligatorietà dell’azione penale: baluardo – anche questo andrebbe primo o poi ammesso – più di forma che di sostanza, in considerazione della modalità di concreto esercizio che tutti i Pm fanno dell’azione penale, anche, va altresì detto, in considerazione della mola eccessiva di fascicoli che essi sono chiamati a gestire.

Resta forte l’altra suggestione che maggiormente circola ovvero che, evocando gli scandali del passato, si è trovato il pretesto per mortificare radicalmente il sistema elettorale dei componenti del Consiglio superiore della magistratura (CSM), con l’introduzione del meccanismo del sorteggio.

Per essere chiari, la vera novità della riforma è proprio la parte riguardante la modalità di composizione del CSM e l’introduzione dell’Alta corte disciplinare. Non vi è dubbio che tali modifiche risultino la conseguenza del mal gestito potere incondizionato di autogestione che ha favorito il potere delle correnti con l’annessa garanzia di sostanziale impunità disciplinare.

Palazzo Chigi, sede de Governo (Ansa)

La riforma rappresenta un vistoso schiaffo, se si considera che si è sottratto al corpo elettorale dei magistrati il diritto di eleggere i propri rappresentanti. Il sorteggio, per inciso, è un meccanismo che non viene utilizzato in nessun ordinamento democratico e che non ha alcun precedente in altri sistemi.

Al contempo, ha ragione Gherardo Colombo a ricordare come la riforma non toglierà, a chi lo vorrà, il potere di inquinare la vita della magistratura: gli accordi si potranno sempre fare nei circoli di potere, magari dopo le nomine invece che prima. Ma ciò non toglie che una misura in grado di contrastare le storture prodotte dalle correnti andava pur adottata, soprattutto in considerazione dell’acclarato incapacità di auto-ridimensionarsi, come dimostrato nel post Palamara.

Non di meno, un altro aspetto importante riguarda l’esercizio del potere disciplinare: il nuovo articolo 105 della Costituzione, nel creare l’Alta corte disciplinare, garantisce soltanto la “rappresentatività” dei togati (giudici e pubblici ministeri) nella Corte disciplinare, ma non impone che in ciascun collegio giudicante la maggioranza sia togata. La finalità appare molto chiara: cercare di far sì che gli errori dei magistrati possano essere giudicati da un organo davvero maggiormente più terzo, fermo restando la garanzia dell’autogoverno.

Altrettanto evidente è che la riforma, come invece cerca di accreditare qualche voce dell’attuale maggioranza, non accelera la definizione dei processi, non affronta le questioni che riguardano l’efficacia e l’efficienza dell’azione giudiziaria. Non di meno, onestà intellettuale vuole che si dica con chiarezza che una sostanziale separazione delle carriere esiste da circa vent’anni: essa infatti è stata introdotta dalla legge Castelli nel 2006 e accentuata nel 2022 con la riforma Cartabia. Come ricorda spesso il procuratore Gratteri, oggi cambiano funzione poche decine di magistrati all’anno; cambio che può essere fatto una sola volta nel corso dei primi dieci anni di professione e per farlo essi devono addirittura cambiare regione.

Ma allora, verrebbe da chiedersi, qual è il senso di questa riforma?

Ebbene, essa doveva essere la naturale conseguenza dell’introduzione del nuovo codice di procedura penale del 1988, ma i primi anni della sua applicazione furono funestati dall’attacco mafioso stragista, rendendo arduo affrontare tale aspetto, quando, anzi, la struttura del nuovo codice veniva piegata al principio della non dispersione dei mezzi di prova.

Tuttavia in dottrina la separazione era già in quegli anni molto studiata (lo attesta, ad esempio, la circostanza che nel 1995 allo scrivente fu assegnato dal proprio relatore una tesi di laurea sulle modalità di realizzazione della separazione delle carriere). Anche la bicamerale di D’Alema discusse lungamente su questo tema e il suo fallimento portò comunque ad un’altra modifica costituzionale con l’introduzione, nel 1999, del principio del contraddittorio come baluardo all’eccessivo ricorso, da parte di pm e giudici, al recupero di atti di indagine come prova.

La separazione divenne subito dopo una bandiera berlusconiana e ciò ne ha senz’altro dato una colorazione di parte che non si è più riusciti a togliere, a tutto detrimento dei suoi contenuti. Basti pensare che in tutti i sistemi accusatori il Pm non appartiene all’ordine giudiziario e spesso addirittura proviene dall’avvocatura.

Ciò che deve essere chiaro ai cittadini anche meno avvezzi a queste tematiche è che il contraddittorio, il ruolo del pubblico ministero e il diritto alla prova sono principi fra loro interconnessi e rappresentano i pilastri di un sistema accusatorio, così come voluto dal legislatore nel 1988, rinunciando a secoli di tradizione inquisitoria. Lo schema della prova che si forma con il contributo delle parti postula una figura del magistrato d’accusa priva di ambiguità, a differenza di quello attuale, come pressoché unanimemente sostiene la dottrina processualistica.

In chiusura, occorrerebbe che il linguaggio usato fosse più corretto: questa di cui discutiamo non è una riforma della giustizia ma una riforma della magistratura.

Essa non inciderà sull’efficienza del processo, il quale necessiterebbe di essere a sua volta profondamente riformato, per provare a renderlo ragionevole nella sua durata e almeno moderatamente efficiente nel suo scopo, ovvero quello di garantire i cittadini rispetto alle condotte penalmente rilevanti poste in essere dai singoli consociati. L’auspicio è che prima o poi si apra anche questo cantiere.

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