È il caso musicale dell’anno: nessuno aveva mai venduto tanti biglietti in così poco tempo

Hanno detto di lui Francesco De Gregori e Antonello Venditti tempo fa: “Niccolò (Moriconi, in arte Ultimo, ndr) è un nostro amico, per cui lo sentiamo partecipe della nostra storia. Oltretutto è una persona veramente carina, pulita, matura, consapevole”. Detto da due artisti quasi ottantenni appartenenti alla vecchia (vecchissima?) storia della musica italiana, sono parole che pesano. Nel video del brano Fateme cantà di qualche anno fa, era ospite proprio Antonello Venditti che aveva duettato con il giovane cantante due anni fa all’Olimpico nel suo classico di decenni fa Sora Rosa e in Notte prima degli esami.



Non è possibile far finta di niente davanti ai numeri incredibili realizzati da Ultimo per il concerto annunciato per il luglio dell’anno prossimo a Tor Vergata, 250mila biglietti venduti in tre ore che fanno dell’evento quello di un artista singolo con il maggior numero di persone presenti nella storia. Mai nessun artista italiano aveva raggiunto simili numeri in così poco tempo, neanche Vasco Rossi. Non si tratta semplicemente di un successo commerciale. È un fenomeno socioculturale, un caso che ci dice molto sul nostro tempo, su chi siamo e su cosa cerchiamo attraverso la musica. Perché Ultimo? E perché ora?



Per rispondere dobbiamo esplorare tre dimensioni intrecciate: la società, la cultura popolare, e la musica stessa. Non dimenticandoci il nickname che si è scelto, Ultimo, come si sentono i ragazzi oggi. Ultimi, dimenticati, sfruttati, manipolati.

Ultimo è riuscito a fare quello che pochissimi artisti riescono a fare davvero: farsi specchio di una generazione. Nel difficile quartiere dove è cresciuto a Roma, San Basilio, gli è stato dedicato “il Parchetto di Ultimo” da tempo meta ricorrente per tutti i suoi fan che ne hanno invaso ogni centimetro di frasi a lui dedicate. Nei suoi testi non ci sono metafore criptiche o storie lontane. C’è una quotidianità emotiva, fatta di amori finiti, solitudini, rabbie interiori, sogni di rivincita. Ultimo canta il dolore e la bellezza delle vite comuni. Lo fa con parole semplici, ma cariche di intensità.



In un mondo dove i giovani vivono precarietà affettiva, economica, sociale, Ultimo diventa un porto sicuro emotivo. Parla come loro, si veste come loro, racconta quello che loro stessi faticano a dire. Non si propone come idolo distante, ma come compagno di viaggio. È insomma una ragazzo normale, l’opposto dei tanti divi e divetti della musica contemporanea che devono per forza “trasgredire” e si bruciano in poco tempo.

A questo si aggiunge la narrazione autobiografica: Ultimo viene dal basso, è cresciuto con la musica ma fuori dai circuiti mainstream, ha vinto Sanremo Giovani nel 2018 e da allora ha costruito tutto con fatica e coerenza. Questo lo rende un eroe credibile per un pubblico che ha bisogno di figure autentiche, non costruite.

Oggi, seguire un artista non è più solo ascoltarlo. È vivere la sua narrazione, farne parte, condividerla. In questo, Ultimo ha costruito una comunità affettiva, non solo un fandom.

I suoi concerti diventano eventi di appartenenza, quasi riti collettivi dove i fan non vanno solo ad ascoltare canzoni, ma a condividere emozioni con altri come loro. Non è un pubblico che “consuma” passivamente: è un pubblico che partecipa, canta, piange, urla, si abbraccia.

I social ovviamente amplificano tutto questo. Ogni biglietto diventa un contenuto da condividere, ogni foto allo stadio è un simbolo di partecipazione. “Io c’ero” non è solo un’affermazione, è una dichiarazione identitaria. In una società sempre più disgregata, il concerto diventa un luogo di riconoscimento collettivo.

Dal punto di vista musicale, Ultimo non è rivoluzionario. Ma è coerente e efficace. Le sue canzoni usano melodie semplici, spesso costruite intorno al pianoforte, con testi diretti, autobiografici, malinconici. Non c’è ricerca virtuosistica né sperimentazione estrema. E proprio per questo funziona: perché è accessibile a tutti, ma capace di tocco emotivo profondo.

La sua cifra stilistica si inserisce perfettamente nella tradizione della canzone d’autore italiana, da Baglioni a Venditti, passando per Tiziano Ferro. Ma lo fa con un’estetica nuova, vicina ai codici dell’hip hop sentimentale, senza però adottarne i toni eccessivi o machisti.

Ultimo non crea musica per “stupire” o per “sfidare” il pubblico. La sua musica abbraccia. Parla a chiunque si sia sentito escluso, a chiunque cerchi un senso, un appiglio. È una musica che consola, più che una musica che interroga.

In un’epoca in cui la musica è ovunque – streaming, social, video – il concerto dal vivo acquista un valore sacrale. Sì, esserci di persona conta più della musica, almeno nell’evento stesso. In un mondo iperconnesso, dove tutto è riproducibile in streaming, l’esperienza live diventa un valore in sé: un’occasione unica, una prova di appartenenza, un gesto simbolico.

Il concerto, lo sappiamo, è un rito collettivo, una forma di liberazione emotiva, soprattutto dopo anni segnati dalla pandemia. L’evento live è vissuto come un atto sociale, non solo musicale. È un momento di auto-narrazione pubblica, da condividere sui social, da ricordare come esperienza personale.

Essere lì non è più solo ascoltare: è vivere un’esperienza unica, collettiva, vera. È qualcosa che non si può replicare su Spotify o YouTube.

Il live diventa un atto di presenza e fedeltà; un’esperienza da ricordare e raccontare; un gesto culturale.

Il record di Ultimo non è solo una questione di numeri. È la prova che oggi la musica vive in una nuova dimensione: quella dell’esperienza condivisa. Ultimo ha intercettato una generazione in cerca di senso, ha costruito un’identità collettiva fatta di fragilità e speranza, e ha creato attorno alla sua musica un luogo simbolico di appartenenza.

Ultimo non è solo l’artista dei record. È la dimostrazione vivente che, anche in tempi incerti, la connessione emotiva batte tutto: le mode, le classifiche, persino la critica. Riempie un vuoto, quel grande vuoto culturale, spirituale, politico, che è la realtà del mondo di oggi. Incarna la figura dell’outsider vincente, il ragazzo “normale” che ce l’ha fatta, rimanendo fedele a se stesso. Questo lo rende un riferimento forte in un’epoca in cui i giovani cercano figure in cui riconoscersi, più che idoli da venerare. E ci ricorda che la musica, quando è autentica, non ha bisogno di spiegazioni. Solo di ascolto. E di presenza.

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