FINANZA/ 1. Così la Libia mette in “trappola” l’Italia

- La Redazione

L’Italia è senz’altro il Paese più esposto al rischio Libia. Il problema più grande, spiega GIOVANNI DEL PANE, è relativo agli approvvigionamenti energetici

Petrolio_BariliR400 Foto Ansa

Si può dire che l’Italia sia il Paese più esposto al rischio Libia, con possibili pesanti conseguenze negli scenari peggiori che si profilano. Intanto, tra Libia e Italia l’interscambio commerciale supera i 10 miliardi di euro e ha toccato punte di oltre 20 miliardi nell’ultimo triennio, con un centinaio di imprese italiane operanti nel Paese.

Ma questi sono numeri che, per quanto importanti, non rendono a sufficienza l’idea della nostra esposizione al rischio Libia, dal punto di vista economico e non solo. Perché in quell’interscambio commerciale c’è quasi un quarto del petrolio che importiamo, e soprattutto perché dietro a questo dato ci sono decine di miliardi di euro di investimenti di lungo periodo che l’Eni ha realizzato (e altrettanti programmati).

I Paesi produttori del Nord Africa (Libia in primis, poi in ordine: Algeria, Egitto e Tunisia) rappresentano appena un ventesimo della produzione mondiale di petrolio, ma contano per un terzo del petrolio prodotto dall’Eni. E di questo terzo, metà lo fa la Libia. Per non dire poi delle riserve. Ecco allora che il Nord Africa, e in particolare la Libia, diventa una chiave fondamentale della nostra strategia di approvvigionamenti energetici: una strategia che non si cambia da un mese all’altro. E questo è il rischio più importante che si profila.

Poi naturalmente c’è il resto, dai progetti infrastrutturali alla presenza di tante Pmi, ma probabilmente questo danno economico passa in secondo piano… Anche gli investimenti diretti libici in Italia, a tutti noti, sono forse il minore dei problemi, benché in pochi si siano chiesti se i fondi sovrani alimentati di petroldollari siano tutti uguali o se piuttosto si portino dietro, sotto le vesti di investitori, un diversissimo grado di rischio Paese.

Tornando al rischio numero uno, c’è chi considera che tutto sommato, magari non ragionando nel brevissimo periodo, quale che sia il regime che seguirà quello di Gheddafi esso sarà dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas tanto quanto il precedente, e che da questo punto di vista è del tutto razionale non preoccuparsi affatto.

 

Ci sono però differenze notevoli tra i Paesi del Nord Africa, differenze peraltro non nuove: la Libia non è l’Egitto, né la Tunisia. Il fatto che qualcuno pensasse e scrivesse – come si è letto durante la sollevazione egiziana sui nostri quotidiani – che la Libia potesse essere tutto sommato al riparo dal contagio dato il benessere da Pil procapite più alto del continente, offre la misura esatta di quanto miope possa essere l’analisi sociopolitica ai giorni nostri. La Libia è rimasta in oltre quarant’anni di Gheddafi un Paese tribale, con le sue tribù, sottotribù, clan e famiglie allargate, con un livello di arretratezza dello sviluppo civile pari solo alla capacità del regime di blandire, cooptare e reprimere duramente entro questa struttura sociale arcaica.

 

Un contesto piccolo (i libici sono sei milioni) ma complesso, e soprattutto completamente diverso da quelli del Maghreb e abissalmente diverso dall’Egitto. In due aggettivi, estremamente chiuso e arretrato. E così se l’ondata di rivolte nel mondo arabo, o almeno in Nord Africa, appare del tutto simile, se non per la diversità repressiva tra autocrazie e sistemi puramente dittatoriali, non lo sarà affatto per le conseguenze. In un contesto come quello libico lo scenario di gran lunga più probabile è quello di una lunga instabilità, guerre tribali tra pezzi armati dell’apparato, destrutturazione statuale, frammentazione del territorio. Uno scenario che, facendo le debite proporzioni, può fare della quarta sponda una Somalia nel Mediterraneo.

 

E in questo scenario le scelte sulle grandi risorse naturali del Paese possono anche sfuggire da un controllo centralizzato e razionale. Si tratta dello scenario peggiore, ma non del più improbabile. Ed è ovviamente uno scenario che ai rischi economici e di sicurezza degli approvvigionamenti energetici ne aggiunge molti altri di altra natura.

 

(Giovanni Del pane)







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