FINANZA/ I test che fanno tremare l’Europa

- Mauro Bottarelli

Resta ancora difficile decifrare la situazione finanziaria dell’Europa, con diversi fronti aperti, a partire dalla Grecia fino all’Italia. L’analisi di MAURO BOTTARELLI

euro-sos Infophoto

Ieri, verso l’ora di pranzo, nelle sale trading era cominciata a circolare la voce di un possibile downgrade di Moody’s del debito italiano, cui sarebbe seguita anche la revisione al ribasso del rating delle più importanti aziende nazionali. Non è andata così, ma non facciamoci illusioni: a una mia mail in cui gli chiedevo conto della possibilità dell’intervento di Moody’s, Ambrose Evans-Pritchard mi rispondeva così: «Non oggi, ma gli analisti ne stanno parlando in termini generali e lo aspettano». D’altronde, al netto del mio giudizio immodificato e immodificabile sulle agenzie di rating, se qualcuno avesse visto e seguito i contenuti della delirante, prima riunione dei neoeletti a Camera e Senato del Movimento 5 Stelle, un downgrade di almeno cinque gradini è il minimo da attendersi. Ma parliamo di fatti, non di ipotesi future, anche se la sconnessione degli spread italiano e spagnolo, così come i movimenti totalmente divergenti tra Ftse Mib e Ibex e i movimenti dei cds, parlano una lingua davvero pericolosa.

Dunque, vediamo le performance delle principali Borse mondiali ed europee la scorsa settimana e da inizio anno. Milano -3,44% nei sette giorni, -3,67% dal 1 gennaio. Parigi, -0,17% e +1,62%. Madrid +0,10% la scorsa settimana, +0,24% da inizio anno. Francoforte, +0,60% e +1,26%. New York, S&P 500, +0,17% la scorsa settimana e +6,45% da inizio anno. Zurigo +0,63% e +11,43%. Londra, +0,68% la scorsa settimana e +8.15% da inizio anno. Tokyo +1,94% e +11,65%. Insomma, al netto di tutte le chiacchiere, l’Italia è sotto attacco.

Nonostante quei dati da rally siano ovviamente frutto di un doping garantito dalla liquidità delle banche centrali e non da fondamentali economici, l’Italia resta a bocca asciutta: anzi, finisce sottacqua mentre la Spagna, che ieri ha registrato un +1,2% del tasso di disoccupazione tra gennaio e febbraio superando la quota dei 5 milioni di senza lavoro, vede l’Ibex in rialzo, seppur frazionale, da inizio anno.

Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di un’Europa che non esiste, di un continente che nei fatti è ormai imploso: a Parigi la Borsa ha guadagnato oltre l’1,5% da inizio anno e come sia conciata Parigi ve l’ho spiegato due settimane fa. Siamo alla vigilia della tempesta perfetta: esplosione della bolla immobiliare cinese, caos obbligazionario in Europa a causa dei debiti pronti a tornare fuori controllo e Stati Uniti a rischio correzione dei corsi per il sequester obbligato, nonostante le promesse di Ben Bernanke di liquidità come se non ci fosse un domani. Non è un caso che in questo momento, all’instabilità eterodotta ed eterodiretta del Movimento 5 Stelle, vada a unirsi una nuova corrente di pensiero, questa volta in arrivo dalla Germania.

Da Berlino, infatti, arrivano segnali chiari: falchi euroscettici, economisti e ambienti delle industrie esportatrici aprono all’ipotesi chiara che l’Italia possa uscire dall’euro. Lo scenario di un abbandono della moneta unica da parte della terza economia dell’Eurozona non viene escluso e anzi viene delineato con sempre maggiore convinzione da una parte delle istituzioni economiche e politiche tedesche. Certo, parliamo di una minoranza ma cos’era Grillo prima del voto? E anche in Germania, stanno sperimentando il loro laboratorio anti-europeo in vista del voto politico di settembre: la lobby euroscettica e nostalgica del marco si sta infatti riorganizzando in corsa per fondare un nuovo partito dal nome che non lascia dubbi: “Alternative fuer Deutschland”, alternativa per la Germania, già giudicata un successo da Deutsche Bank Research che ieri dedicava alle neonata formazione un’analisi approfondita.

Primo e unico punto programmatico: ripensare l’euro come moneta “dura” dei soli paesi forti o abbandonarlo. Insomma, nonostante il “whatever it takes” di Mario Draghi, si comincia a parlare chiaramente di tangibilità del dogma europeo e del totem monetario unico. Nemmeno troppo a sorpresa, a schierarsi in favore dell’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro, come strumento negoziale, è stato l’economista Paolo Savona, già difensore dell’opt out anche su queste pagine. Parlando al settimanale Focus, il principale strumento di disinformatia anti-italiana in servizio permanente e attivo e ripreso da La Repubblica, l’ex ministro dei governi che hanno portato il nostro Paese nell’euro ha lanciato un allarme sulla situazione italiana, schiacciata da una politica basata esclusivamente sull’austerità e sul rigore contabile: «Se la politica europea non cambia avremo di fronte a noi due possibilità. O un tasso di disoccupazione pari al 20% della popolazione attiva, tenendoci l’euro, oppure rinunciando all’euro un tasso d’inflazione del 20% ma con la speranza di una ripresa. Io preferirei la seconda variante. Soltanto la paura di un salto nel vuoto ci trattiene… un Paese serio deve disporre di un piano B di questo genere. Altrimenti, la sua posizione negoziale diventa più debole».

Il problema è che non è una lobby di visionari a prefigurare scenari simili, ma economisti, esponenti del mondo delle imprese, fra cui l’ex capo della Confindustria tedesca Hans-Olaf Helkel, politici già vicini alla Cdu della cancelliera Angela Merkel e anche il pragmaticissimo presidente dell’Associazione degli esportatori tedeschi (Bga), Anton Boerner, a detta del quale «i paesi del Nord dovrebbero riflettere a porte chiuse sugli scenari d’esecuzione, altrimenti gli italiani possono ricattarci con la minaccia di uscire dall’euro». Ma non solo. Per Boerner, «il 60% degli elettori italiani è contrario alla moneta unica nella sua forma attuale, bisogna rispettare gli elettori italiani e spiegare loro che non c’è alternativa alla disoccupazione. Il governo (tedesco, ndr) deve elaborare un Piano B, con la previsione di un crollo dell’euro o di nuovi confini dell’eurozona. Aiuti all’Italia? No, perché gli italiani sono più benestanti dei tedeschi».

Capito che aria tira in giro per l’Europa, mentre qui non sappiamo nemmeno se e quando avremo un governo e di che tipo? Ma, cari lettori, un’Europa a due velocità esiste già, nonostante il patetico collante della moneta unica. A confermarlo, come sempre, il mercato. La Russell Investment, gigante statunitense che gestisce assets per 2,4 triliardi di dollari, ha infatti cominciato la revisione del suo giudizio sulla Grecia già nel 2010 e oggi ha deciso ufficialmente la riclassificazione di Atene tra i “mercati emergenti”, dopo che solo nel 2001 l’aveva inserita nella lista dei “mercati sviluppati”. Perché? I livelli insostenibili di debito, tali da rendere il Paese una preoccupazione a livello mondiale, già emersi nel 2009.

Nel 2010, infatti, la Grecia non passò i test di rischio operativo e macro della Russell, mancando l’obiettivo sia a livello di reddito pro capite, capitalizzazione totale di mercato e livello del volume di trading. Ora che la riclassificazione è entrata in vigore, i manager della Russell dovranno per forza vendere e comprare titoli per allineare le loro detenzioni ai criteri del fondo in base all’investment grade. Nella sua relazione di dieci pagine riguardo la riclassificazione al ribasso della Grecia, il capo analista Mat Lystra dice senza tanti giri di parole: «Nonostante i molti tentativi di salvataggio per evitare il default, qualsiasi opportunità offerta dal mercato ellenico è diventata inaccettabilmente rischiosa a livello di esposizione per gli investitori globali. Ancora all’inizio di quest’anno, nell’ambito della “Global markets risk review 2013”, la Grecia ha mancato i due obiettivi richiesti a livello di profilo di rischio».

Ma se la Grecia ha subito una riclassificazione a “mercato emergente”, cosa sarà di Portogallo e Spagna? Alla Russell, per ora, dicono che «entrambi quei paesi hanno la loro parte di seri problemi, ma non abbiamo notato però lo stesso grado di declino dell’economia, né di rischio che abbiamo constatato in Grecia. Certo, nessuno è immune a un potenziale cambiamento dello status di market-risk». Come dire, per ora è la Grecia ma nulla è impossibile: avete idea cosa scatenerebbe un declassamento del Portogallo a “mercato emergente”, con conseguente cambio nei portafogli di detenzione assets? Il contagio immediato alla Spagna, esposta in maniera pericolosissima all’economia lusitana. Se poi il declassamento dovesse riguardare da subito anche Madrid, trovatevi un bunker comodo…

Anche perché quello compiuto dalla Russell con la Grecia è in assoluto un atto senza precedenti, visto che finora c’erano stati upgrade di status di mercato, non riclassificazioni al ribasso. D’altronde, la metodologia utilizzato da Russell per le valutazioni è chiara: un mercato sviluppato è quello dove, in generale, si incontra meno rischio e maggior efficienza nel trading. Ci vogliono tre anni di test falliti per essere riclassificati al ribasso al livello di “mercato emergente”, quindi il tempo gioca a favore del resto d’Europa, ma se qualche altro mega-fondo seguisse la via della Russell, quale effetto psicologico si innescherebbe, da subito, nell’eurozona?

Io so solo una cosa, quando agenzie come Bloomberg cominciano a preparare grafici comparativi come questo, a me viene la pelle d’oca. E qualche strano pensiero complottista.

 







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