SPY FINANZA/ Oro, “l’asso” di Putin nella guerra petrolifera

- Mauro Bottarelli

La Russia ha deciso di aumentare le proprie riserve auree: una mossa che, spiega MAURO BOTTARELLI, non può essere sganciata da quel che avviene sul mercato petrolifero

putin_rosso_zoomR439 Vladimir Putin (Infophoto)

Ieri parlavamo della scelta della Banca centrale olandese di rimpatriare metà delle riserve auree stoccate presso la Fed di New York, oggi invece restiamo in tema ma con un protagonista diverso e con implicazioni geopolitiche e geofinanziarie ben maggiori: la Russia. La quale, su precisa volontà di Vladimir Putin, ha sfruttato il prezzo relativamente basso dell’oro dopo l’esplosione della bolla futures per acquistare un quantità enorme di metallo prezioso, sintomo della consapevolezza che una guerra di lungo termine con l’Occidente è più che probabile e quindi occorre prepararsi.

Stando agli ultimi dati del World Gold Council, Mosca nei tre mesi conclusisi alla fine di settembre ha acquistato qualcosa come 55 tonnellate di oro fisico, portando le riserve totali a circa 1150 tonnellate, un dato triplicato negli ultimi dieci anni. Insomma, a fronte di un rublo sotto pressione a causa delle sanzioni e del calo del prezzo del petrolio, i cui introiti di export pesano per il 45% del budget governativo, si corre verso il bene rifugio per garantirsi una sorta di gold standard che vada a operare un offsetting sulle riserve valutarie in calo.

Ma c’è un qualcosa di molto strategico, come vi dicevo, in questa scelta e a confermarlo ci ha pensato Vladimir Putin in persona, in un’intervista con l’agenzia governativa Tass: «L’economia russa, già colpita dalle sanzioni e dal calo del rublo, fronteggia un potenziale e catastrofico crollo del prezzo del petrolio. Questo scenario è del tutto possibile, ma le nostre riserve (pari a 422 miliardi di dollari, ndr) sono abbastanza grandi per garantire al governo di poter mantenere tutti i suoi impegni a livello sociale, oltre che la stabilità economica e del budget. Una nazione come la nostra può affrontare una situazione del genere più facilmente di altre. Perché? Perché siamo produttori di gas e petrolio e perché gestiamo le nostre riserve valutarie e auree, oltre che le riserve governative con acume».

Davvero siamo di fronte al rischio di un crollo ulteriore e verticale del prezzo del petrolio? Stando alle valutazioni di alcuni manager di fondi su commodities sì, soprattutto se al prossimo meeting dell’Opec in programma dopodomani a Vienna i paesi produttori non troveranno un accordo su un significativo taglio delle forniture, pari almeno a un milione di barili al giorno. In quel caso, si vocifera negli ambienti di mercato, il prezzo del greggio potrebbe crollare in area 60 dollari al barile. Già oggi il prezzo dei futures sul Brent è crollato di un terzo da giugno, toccando il minimo da quattro anni lo scorso 14 novembre a quota 76,76 dollari al barile e se a Vienna non si prenderà una decisione netta, per Daniel Bathe del Lupus Alpha Commodity Invest Fund «il mercato metterà in discussione la credibilità stessa dell’Opec e la sua influenza sul mercato petrolifero. In quel caso, mi attendo i prezzi attorno ai 60 dollari, con un calo che sarà spinto al ribasso in modalità di accelerazione dalle posizioni speculative nette short».

Il calo della domanda globale e il boom dello shale gas Usa hanno molto indebolito la posizione del petrolio, il quale a fronte di offerta abbondante paga con il ribasso dei prezzi le dinamiche macro: per questo, in molti ritengono che un taglio di 500mila barili al giorno non sarà sufficiente a calmare i mercati. Addirittura c’è chi come Doug King della Rcma Capital vede il prezzo del barile a quota 70 dollari in tempi brevi anche se si arrivasse a un taglio di 1 milioni di barili al giorno: «Con queste dinamiche, mi attendo prezzi ancora più bassi nella prima metà del 2015. Se poi non si arrivasse a un accordo sul taglio delle forniture, area 60 dollari è più che probabile». C’è invece chi pensa a un rapido ritorno in area 85 dollari se da Vienna arrivasse la decisione di tagliare 1 milione di barile o anche più, visto che le festività del Ringraziamento della prossima settimana faranno in modo di far mancare la liquidità dal mercato Usa e questo potrebbe accelerare una corsa al rialzo del prezzo.

Il problema, però, è politico: quella in atto è una guerra petrolifera per ragioni geostrategiche che vede da un lato Usa e Arabia Saudita e dall’altro Russia e Iran, con Riyad capace di gestire i livelli di prezzo attuale e quindi ben contenta di vedere quale sia il punto di rottura per la produzione Usa. Insomma, i sauditi hanno il tempo dalla loro parte, anche se stiamo parlando di mesi e non di anni e se il prezzo dovesse scendere sotto i 70 dollari il punto di break even farebbe scendere quei mesi a settimane. Accelerando, di fatto, una possibile reazione russa, visto che a Mosca hanno la quasi certezza che le sanzioni dureranno almeno fino al 2017 e la fuga di capitali sta rivelandosi maggiore di quanto preventivato, si calcola 128 miliardi di dollari entro fine anno, tanto che la Banca centrale ha tagliato a zero le stime di crescita per i prossimi due anni e messo in guardia da un rischio recessivo entro la fine di questa decade.

E, interpellato da ilsussidiario.net con la condizione dell’anonimato, un trader operante a Londra ha detto di temere sul breve una reazione muscolare, quasi un avvertimento, di Mosca: «La Russia può combattere duramente questa battaglia. Certo, possiamo discutere del fatto che le sue riserve siano più o meno sufficienti a resistere, ma ti dico chiaramente che sono abbastanza grandi da distruggere la tua posizione di trader da un giorno con l’altro se lo vogliono. Non stiamo parlando di Nigeria o Ghana ma della Russia». E la tentazione Vladimir Putin potrebbe averla, visto che anche l’export non petrolifero russo è calato dal 21% all’8% del Pil dal 2000 a oggi e che la crisi petrolifera potrebbe esacerbarsi dopo il meeting Opec di dopodomani, come ricordato prima.

Da giugno il petrolio degli Urali è sceso da 115 dollari al barile a 83 dollari e molti analisti pensano che la caduta del prezzo potrebbe innescare anche un calo dei prezzi del gas verso i paesi dell’Ue del 22% il prossimo anno, a causa del collegamenti dei contratti di Gazprom, un qualcosa che eroderebbe ancora di più le voci di introito da export. Stando a calcoli di Renaissance Capital, i costi marginali per i nuovi progetti petroliferi in Russia sono attorno ai 90 dollari, mettendo però in guardia dal fatto che Mosca potrebbe perdere un output di 350mila barili al giorno il prossimo anno se la logica economica prevarrà. Di più, la Banca centrale ha posto in essere un previsione ottimistica di prezzo medio al barile per il prossimo anno attorno ai 95 dollari ma questo appare a rischio, sia per la minore richiesta dal comparto industriale cinese, sia dalla rinnovata offerta da paesi come Libia, Iraq e forse presto anche l’Iran, tanto che Deutsche Bank ha calcolato come il break-even fiscale per la Russia sia attorno ai 100 dollari al barile se si vuole bilanciare il budget governativo e pagare i costi della corsa al riarmo voluta da Vladimir Putin.

Il quale, come vi ho detto prima, ritiene che riserve monetarie e auree siano sufficienti a tamponare uno shock al ribasso del prezzo del petrolio ma deve comunque fare i conti con la realtà: a dicembre le riserve russe toccheranno quota 422 miliardi, 35 miliardi meno di quanto stimato e questo a fronte del rischio di dover intervenire per aiutare le aziende e le banche del Paese, le quali affrontano uno stock di debito estero pari a 731 miliardi di dollari, quasi tutto denominato appunto in biglietti verdi. Solo nei prossimi mesi dovranno fare roll-over su 162 miliardi, il tutto in un clima che vede i mercati di capitale per il finanziamento completamente chiusi per le aziende del Paese.

 

(1- continua)





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