SPY FINANZA/ Le manovre pericolose di Fed e Bce

- Mauro Bottarelli

Ci avviciniamo a un momento importante per quel che riguarda le politiche monetarie di Fed e Bce. MAURO BOTTARELLI ci spiega quali rischi si corrono con le loro mosse

janetyellen_occhialiR439 Janet Yellen (Infophoto)

Ci sono movimenti – alcuni palesi, altri sotterranei – nel mondo delle Banche centrali. Cominciamo dai primi, visto che questo finire di settimana è stato pieno di novità. Primo, la Banca centrale cinese (Pboc) e la Bce sono pronte a effettuare operazioni di swap valutario, dopo l’esito positivo di due test effettuati quest’anno, ad aprile e a novembre: un’operazione la cui firma risale all’ottobre 2013 e l’ammontare massimo è pari a 350 miliardi di yuan o 45 miliardi di euro. L’intesa è volta a fornire un supporto di liquidità per entrambi i mercati monetari e a facilitare il commercio e gli investimenti tra la Cina e l’eurozona: bravo Draghi, stavolta un applauso te lo meriti davvero. Ma c’è dell’altro.

Da venerdì scorso e fino al 21 dicembre, infatti, sempre la Bce ha aumentato gli acquisti di bond per sfruttare le migliori condizioni di mercato attese nella prima parte di dicembre. Francoforte intende poi sospendere temporaneamente gli acquisti di bond (titoli di Stato, Abs e covered bond), legati alla politica di allentamento quantitativo, dal prossimo 22 dicembre al primo di gennaio incluso. La ragione deriva dalla minore liquidità del sistema, tipico fenomeno di fine anno e quindi dalla necessità di evitare effetti distorsivi sul mercato: gli acquisti riprenderanno dal 4 gennaio 2016. Questo senza tener conto che i mercati si attendono un rafforzamento del programma di Qe da parte di Francoforte alla prossima riunione del 3 dicembre, in vista della quale l’Eurotower sta valutando diverse opzioni.

Tra queste, oltre all’aumento del programma di acquisto dei bond (inclusi quelli regionali), la Banca centrale starebbe riflettendo su un doppio livello per i tassi di deposito, quelli che le banche attualmente pagano, già negativi, per parcheggiare il denaro sui conti dell’istituto di Francoforte. Stando a quanto rivelano fonti della Bce, l’Eurotower starebbe valutando la possibilità di penalizzare maggiormente chi deposita di più, rendendo il tasso sui depositi, attualmente al -0,20%, proporzionale all’ammontare dei depositi stesso. Tra le ipotesi in discussione, sempre stando alle fonti citate da Cnbc, ci sarebbe anche la possibilità di acquistare bond in ristrutturazione a rischio di non rimborso. Qui, se mi consentite, non mi viene affatto voglia di applaudire, ma tant’è, la strada verso la politica di Nirp (Negative interest rate policy) sembra spianata.

Lo stesso vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha espresso aperture sulla possibilità di tagliare ulteriormente il tasso sui depositi, citando i casi di Svezia, Svizzera e Danimarca: «Questi esperimenti mostrano che i mercati possono sicuramente funzionare anche con tassi sui depositi negativi», ha affermato durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto semestrale sulla stabilità finanziaria. Formalmente, lo scopo di questo tipo di misura è incoraggiare le banche a impegnare i fondi nell’economia reale, anche se può ripercuotersi con l’erosione dei rendimenti. Indirettamente poi un provvedimento simile tende a far moderare la divisa di riferimento, in questo caso l’euro.

Follia, perché in un articolo di poco tempo fa vi ho dimostrato a cosa stiano portando le politiche di tassi a zero scandinave, ovvero alla deflazione: nel caso della Norvegia, la spirale è talmente negativa che si starebbe pensando a un Qe in piena regola come quello svedese, peccato che Oslo sia talmente a posto con i conti da non aver abbastanza debito da monetizzare, come ho raccontato nel mio articolo di sabato scorso! Paradossi dei Paesi virtuosi. Ma torniamo al Qe e alla sua implementazione.

Poche ore dopo l’annuncio della Bce, quando l’euro stava puntando a quota 1.05 sul dollaro, minimo da sette mesi, i mercati sono stati scossi da un’altra notizia: ovvero, Goldman Sachs – il cui trade principale da oltre un anno era lo short sull’euro – ha comunicato di aver «ridotto la posizione ribassista dell’euro su dollaro, visto che le azioni delle Banche centrali sono sempre maggiormente prezzate in entrambe i mercati». Cosa vuol dire? Semplice: per quasi un anno quello short si è rivelato fonte di perdite per chiunque ci abbia investito, poiché l’euro non è calato sul dollaro in fretta come Goldman si aspettasse, mentre ora è sceso più velocemente di quanto la banca d’affari si attendesse. Il problema è però interpretativo, al di là del mero business della scommessa di Goldman: ovvero, se la banca taglia il suo short, vuol dire che è convinta che il suo ex-dipendente a dicembre non andrà all-in con l’implementazione del Qe?

Per molti, infatti, la mossa di Goldman ha fatto il paio con le parole rilasciate nella mattinata di mercoledì scorso da Ardo Hansson, membro del Consiglio direttivo della Bce, a detta del «non si vedono ragioni per un ulteriore allentamento monetario alla riunione di dicembre». Insomma, dubbi e non da poco, visto che come ci mostra il grafico a fondo pagina, l’euro/dollaro è prontamente risalito in area 1,06 dopo la comunicazione della banca d’affari. Insomma, Goldman vuole dirci che sta passando da ribassista e rialzista sull’euro, quindi puntando su una svalutazione del dollaro? No, in realtà e ufficialmente, perché nel report che accompagnava la decisione operativa sul trade, diceva chiaramente di attendersi la moneta unica europea a 0,95 sul biglietto verde nel primo trimestre del 2016 e addirittura a 0,80 per la fine del 2017, un livello che significherebbe la fine per le multinazionali Usa.

Goldman bluffa o quantomeno nasconde le carte? Cosa sa, forse che la Fed non alzerà affatto i tassi ma che questi resteranno bassi per molto tempo? Addirittura sa che, stante la situazione da quasi recessione dell’economia Usa, ci vorrà un altro po’ di stimolo monetario, il quale ovviamente porterà il dollaro al ribasso? La Bce sembra tranquilla, infatti nel suo report triennale apparentemente e ufficialmente si occupa di tutt’altro, ovvero dei rischi connessi ai mercati emergenti per un potenziale triplo shock generato da rallentamento della Cina, evaporazione della liquidità per fughe di capitali e, appunto, rialzo dei tassi da parte della Fed. L’Eurotower parla chiaramente di «vulnerabilità irradiata dai mercati emergenti che stanno aumentando. Le nazioni molto indebitate in valuta estera potrebbe essere vulnerabili alla prospettiva di una normalizzazione delle condizioni finanziarie negli Usa e nelle altre economie avanzate».

Ma poi si insinua, piccolo piccolo, un dubbio: per la Bce, infatti, «un ritiro più veloce di quanto atteso delle politiche monetarie accomodanti da parte della Fed potrebbe innescare un nuovo shock di volatilità, il quale potrebbe tracimare fino all’eurozona». Inoltre, per l’Eurotower la Cina – nonostante il mercato abbia già recuperato quasi il 30% delle perdite estive, salvo il tonfo di venerdì – rimane «una preoccupazione particolare, perché il rallentamento della seconda economia del mondo, combinato con un rapido aumento dei tassi da parte degli Usa, potrebbe portare questi ultimi in recessione e innescare caos sui mercati, aggravando la crisi nei Paesi emergenti». Per la Bce, in questo contesto, il mercato azionario Usa potrebbe perdere il 20% nei due anni successivi, mentre alcune nazioni dell’eurozona potrebbe vedere svanire fino al 4,7% del loro Pil nel medesimo periodo.

 

Insomma, leggendo bene il report la Bce sembra invece non poco preoccupata dal possibile rialzo troppo rapido dei tassi negli Usa (d’altronde, sono a zero solo da 84 mesi di fila): il titolo era dedicato ai mercati emergenti ma il contenuto era chiaro. Ovvero, se la Yellen fa di testa sua e alza davvero di un quarto di punto a dicembre, il rischio che venga giù tutto il castello di carte della presunta ripresa è alto. Altissimo. Non a caso, lo stesso Fmi continua a invitare la Fed alla calma, chiedendo di rimandare l’aumento dei tassi a quando le condizioni globali (Cina, mercati emergenti e Medio Oriente) lo consentiranno in sicurezza.

Vedete, siamo arrivati alla situazione che vi prospetto da almeno due anni: a forza di calciare avanti il barattolo, Qe dopo Qe, taglio dei tassi dopo taglio dei tassi, si arriva al punto di essere con le spalle al muro. E stavolta ci siamo davvero. Ma tranquilli, a mio modo di vedere la Fed non arriverà a un azzardo tale, sarebbe come dichiarare guerra al mondo intero per via finanziaria e l’aria mi pare già abbastanza pesante in giro. Ha due alternative: alzare a dicembre di 0,25, far partire un po’ di caos sui mercati (cosa che danneggerebbe non poco la Russia, ad esempio) e poi, a marzo, riunione di emergenza, tassi giù di nuovo (magari in negativo) e ancora un po’ di Qe. Nessuno, nel panico che aleggerà, vorrà spiegazioni o scuse dalla Yellen. Oppure sfruttare l’alibi dell’instabilità geopolitica da subito, mantenere i tassi a zero nella riunione del 15-16 dicembre e di fatto mandare ai mercati il segnale che anche per tutto il 2016 non se ne parlerà, visto che ci sono anche le presidenziali per la Casa Bianca.

Sono abbastanza certo che andrà così e sapete perché? Me lo dice il primo grafico a fondo pagina, il quale ci dimostra plasticamente come nella guerra valutaria globale in corso l’Europa stia vincendo e gli Usa stiano perdendo. Lo dimostrano appunto i dati delle più grandi corporations Usa, quelle del Dow 30, le quali hanno tutte registrato cali di vendite in Europa nel terzo trimestre di quest’anno, proprio come conseguenza del rafforzamento del dollaro. Gli impatti dei cambi, infatti, hanno colpito le vendite con un calo del 7,4%, stante i deprezzamenti su base annua di euro, yen e real brasiliano sul biglietto verde, rispettivamente del 15%, 14% e 37%. Delle trenta compagnie prima citate, solo 11 hanno fornito i numeri relativi all’Europa nel terzo trimestre e nove di queste hanno registrato cali su base annua, mentre le altre due hanno comunque registrato impatti negativi del dollaro forte sulle loro performance di mercato. E siccome le vendite al dettaglio sono già in fase molto negativa nel mercato interno Usa, come ci mostra il secondo grafico e i consumi pesano per il 70% del Pil statunitense, non si può perdere ulteriore tempo, prima che il trend dei corsi azionari compia re-coupling con quello delle vendite e vada a schiantarsi: le corporations Usa hanno bisogno dei benefici della svalutazione, di un dollaro debole e ne hanno bisogno adesso. Cosa farà la Fed, volterà loro le spalle, alzando i tassi a dicembre?

Io ne dubito, ma se lo farà sarà solo per garantirsi mano libera entro marzo per una maxi-misura salva mercato. Fossi nella Bce, starei allerta: tutto possiamo permetterci nell’eurozona, tranne uno shock rialzista dell’euro in un contesto di ripresa anemica, la deflazione che ancora incombe e il Qe in atto che verrebbe di fatto depotenziato e spazzato via.

 

 







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