DALLA GRECIA/ Orgoglio o portafoglio: il dilemma che spiega le “figuracce” di Tsipras

- Sergio Coggiola

Continuano le trattative tra Grecia ed Europa per il rimborso del debito di Atene. SERGIO COGGIOLA ci spiega come si sta muovendo in questi giorni Alexis Tsipras

tsipras_r439 Alexis Tsipras (Infophoto)

“Una parte del nostri partner sospetta che la Grecia non procederà con le riforme. Ma noi siamo qui per chiedere la collaborazione dell’Ocse per queste riforme”, ha dichiarato il primo ministro Alexis Tsipras dopo l’incontro di mercoledì con il Presidente dell’organizzazione. Una visita agli archivi: nel 2013 anche il governo Samaras aveva cercato la sponda dell’Ocse per avviare alcune riforme. Allora, Syriza, all’opposizione, aveva dipinto questa iniziativa come la “demolizione dello Stato sociale” e come il “libro nero del neo-liberismo”. 

L’Ocse, è bene ricordarlo, aveva proposto a Samaras, tra le altre, la riforma della Pubblica amministrazione. In sintesi: applicare le disposizioni del diritto privato al rapporto di pubblico impiego e assegnare alla Pubblica amministrazione-datrice di lavoro gli stessi poteri di gestione del rapporto tipici del datore di lavoro privato. Ma toccare il settore pubblico significa smantellare il potere clientelare. Così come non si possono demolire i privilegi delle professioni chiuse, dei cartelli alimentari, della distribuzione, degli oligopoli, e altro ancora. E anche su queste riforme aveva insistito, nei suoi “consigli” l’Ocse. Proposte respinte da Samaras. Resta da sapere quali “consigli” accetterà Tsipras. A meno che anche questa sia una manovra diversiva.

Nonostante i termini dell’accordo siano chiari – prima la verifica dei conti, poi lo studio della ricaduta economica delle riforme e in seguito il finanziamento – da Parigi il primo ministro ha continuato a provocare – forse a pararsi il fianco sinistro – sulla necessità del taglio del debito e sull’ipotesi che “se non ci sarà l’erogazione del prestito vorrà dire che qualcuno vuole minare l’accordo, quindi esso non sarà in grado di procedere in modo costruttivo ed efficace”. Chi è quel “qualcuno”? Ovvero il nemico alle porte – o aspettando i “barbari” (per i greci classici sono coloro che parlano una lingua che non ha senso per chi ascolta), evocando il capolavoro di Konstantinos Kavafis?

La retorica “nazionalista” di Alexis Tsipras – di un suo ministro: “La Grecia non è una Repubblica delle banane tantomeno un ‘dipendente’ della Troika” e del grande compositore Mikis Theodorakis: “La Grecia è un Paese indomito”, e di altri – riporta alla mente l’epopea di Andreas Papandreou nel 1981. Era un indizio che si stava concretizzando anche durante la campagna elettorale di Syriza. Ieri la sinistra ha vinto con la “speranza”, allora per il “cambiamento”. Ieri per una “Europa che cambia”, allora per una Grecia “sovrana”, svincolata dalle influenze straniere. Gli slogan vincenti di Papandreou furono due: “Mec e Nato lo stesso sindacato” e “Fuori le basi Nato dalla Grecia”. Quelli di Tsipras: “La Troika è morta” e “Libertà di decidere il nostro futuro”.

Il tratto comune tra i due è lo scontro con i “barbari” che cercano di imporre le proprie regole in terra ellenica: l’Europa comunitaria e l’America allora, la Germania e la Ce oggi. La retorica di Papandreou ebbe una forte presa sulla classe media e su una parte della sinistra che non si identificava nel Partito comunista cui Papandreou aveva rubato gli slogan, ma creò un grave imbarazzo nelle cancellerie europee che ipotizzarono un avvicinamento della Grecia all’Unione Sovietica e all’asse dei Paesi non allineati. Scoprendo le carte, la strategia di Papandreou fu quella di strappare maggiori finanziamenti europei e di aumentare il canone di affitto delle basi americane. Silenziosamente poi rinnovò il contratto di locazione con gli Usa, ma nell’immaginario collettivo Papandreou poté cingersi, con una corona di alloro,  la fronte quale vincitore,  colui che non accetta diktat dai “barbari”. Tsipras da parte sua ha toccato la corda della “dignità” e dell'”orgoglio nazionale”. Indicativa la nota del ministro delle Finanze Varoufakis: “La gente, più ancora che lavoro e denaro, chiede dignità”. Dovrebbe spiegare ai disoccupati se essere senza lavoro significa vivere con dignità, anche se adottano uno “stile di vita sobrio” (citando ancora Varoufakis).

L’America e il Mercato comune europeo di Papandreou sono la Germania e la Troika di Tsipras. Con una differenza sostanziale. Papandreou poteva stampare moneta, aveva come interlocutore soltanto l’opinione pubblica perché nessun nel suo partito osava contraddirlo e il Paese era in crescita. Tsipras ha le casse vuote, un Paese in recessione, deve confrontarsi con le sue promesse pre-elettorali, ma soprattutto deve fare i conti con il 40% di oppositori interni (dai marxisti-leninisti, agli ammiratori di Hugo Chavez), che chiedono, e non certo sottovoce, la “rottura” e con un’opinione pubblica che inizia a mostrare i primi segni di sofferenza e che si chiede come può andare a finire questo braccio di ferro con la Germania. Fino a quando Tsipras potrà tenere legati l’orgoglio nazionale e la realtà? Fino a che spessore semantico la “carne” verrà ribattezzata “pesce”? 

Per usare l’accusa mossa al primo ministro dal vecchio partigiano Manolis Glezos, diventato da eroe della resistenza personaggio politico debordante anche per il governo. Forse il primo ministro dovrebbe leggere attentamente il “Cratilo” di Platone. E non è un caso che nello stesso giorno in cui il governo accettava i controlli dei tecnocrati del “Brussels Group”, dal Parlamento parlava di “crimini di guerra da parte del Terzo Reich” e di risarcimento del prestito forzato imposto ad Atene dai nazisti. 

Se si può giustificare la retorica “nazionalista” di Papandreou e di Tsipras si deve anche ragionare sul “guadagno”. Al primo l’inveire contro i “barbari” portò consensi, capitali e un controllo plebiscitario della società. Il secondo deve invece ancora passare alla “cassa europea” perché al Paese servono fondi. Toccare il nervo scoperto del passato nazista non giova ai rapporti con Berlino, che potrebbe essere chiamata a votare per un terzo pacchetto di aiuti.

D’altra parte il governo ellenico non ha tutti i torti a chiedere di non essere considerato un “inquilino” ma un “comproprietario” della casa europea. Stando alle dichiarazioni di Elena Panaritis, consigliere economico di Yanis Varoufakis – che ha partecipato alla prima riunione con il “Brussels Group”, cioè gli ex-troikani – la controparte ha posto ad Atene il dilemma: se non avete liquidità o pagate gli interessi sul debito o pagate stipendi e pensioni. “Quando diciamo che abbiamo un problema di liquidità e ci rispondono di non pagare per uno-due mesi pensioni e stipendi, sembra che i creditori affrontino questo problema in una maniera piuttosto strana”, ha affermato la Panaritis nel corso di una conferenza. Ma ha anche ammesso che il Paese non produce nulla e che “è una vergogna che si possa andare in pensione a 45 anni. Questo deve finire”. (Piccola nota: il contenuto delle dichiarazioni della Panaritis viene confermato nella mattinata di venerdì 13 dal ministero della finanze. Alle 15 dello stesso giorno, la signora Panaritis smentisce se stessa e il ministero, affermando che “le mie dichiarazioni fatte in una conferenza pubblica circa l’atteggiamento dei creditori si riferiscono al periodo antecedente al 2015”).

È vero. Nonostante riforme e tagli delle pensioni si può ancora andare in pensione a 45-50 anni. E allora perché non ricordare che in certi enti parastatali esiste ancora la categoria degli “argomistì”, cioè coloro che non lavorano ma ricevono regolarmente lo stipendio. O che, ed è solo un esempio tra i tanti, un semplice intervento chirurgico possa costare mille euro con ricevuta oppure settecento senza. Difficile scegliere tra coscienza civica e portafoglio vuoto. Sono tutte eredità dell’epopea di Andreas Papandreou che ha costruito un complesso intreccio di clientelismo, statalismo, corruzione e deroga alle norme difficile da sbrogliare e riformare, pena una secca perdita di consensi, proprio quelli dietro cui si maschera il governo quando sostiene che la sua strategia per le riforme trova il sostegno della società. 

La crisi ellenica viene da lontano, per cui c’è da chiedersi quali siano i termini esatti con cui la Grecia chiede la “solidarietà politica europea” e se siano soltanto i “barbari” – Troika e Germania – gli unici responsabili del sofismo ellenico.







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