SPY FINANZA/ I rischi e le guerre legate all’oro nero

- Mauro Bottarelli

MAURO BOTTARELLI prosegue la sua analisi sul costo del petrolio, le cui dinamiche sono molto importanti per le conseguenze geopolitiche che porta con sé questa commodity

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Nel precedente articolo abbiamo parlato dell’Arabia Saudita, ma non c’è solo Riyad. Sempre restando nell’area, il crollo del prezzo dell’oro nero potrebbe avere conseguenze anche peggiori per un altro Stato profondamente dipendente dal barile come l’Iraq. Già, perché il dinaro iracheno è anch’esso sotto forte pressione svalutativa, proprio per le mancate entrate fiscale dell’export petrolifero e se la situazione non migliorerà in tempi brevi, la seconda nazione produttrice dell’Opec potrebbe dover limitare l’intervento militare contro l’Isis, essendo le operazioni belliche interamente finanziate proprio dal petrolio. Il primo grafico a fondo pagina ci mostra come le riserve in dollari del Paese siano calate di circa il 20% a 59 miliardi il 23 luglio scorso e le perdite stanno accelerando: nei primi 25 giorni di agosto la Banca centrale ha venduto 4,6 miliardi di dollari di valuta per mantenere il tasso di peg del dinaro, il quale sta patendo outflow quotidiani pari a 184 milioni di dollari. 

Per Frank Gunter, autore di “The political economy of Iraq”, «la tempesta perfetta per il Paese si sostanzia nel fatto che continueranno a perdere riserve fino a quando il governo non deciderà di svalutare il dinaro. Penso che la valuta potrebbe perdere fino al 20% nel prossimo anno». Inoltre, gli Usa hanno inviato armi a curdi nella parte nord del Paese per contrastare l’Isis e intendono spendere altri 700 milioni di dollari nel 2016, ma il grosso delle operazioni militari nel resto del Paese pesano sulle casse statali irachene da quando gli americani hanno ritirato le truppe nel 2011. Quindi, un collasso del valore del dinaro potrebbe rendere ancora più pesante il costo della vita per gli iracheni, i quali stanno già protestando contro la corruzione del governo e per i tagli alla fornitura di luce e acqua. 

La Banca centrale irachena ha fissato il tasso di cambio del dinaro con il dollaro a 1,166, ma c’è forte pressione su questo peg, tanto che la Exotix Partners di Londra stima che le riserve estere potrebbero calare di circa 45 miliardi entro la fine del 2016. Insomma, o si svaluta o ci si dissangua. Finora le autorità monetarie hanno resistito alla pressione del governo per stampare moneta al fine di pareggiare i circa 30 miliardi di dollari di deficit di budget, ma nonostante un’emissione obbligazionaria da 6 miliardi annunciata la scorsa settimana e l’aiuto del Fmi per 1,2 miliardi, il secondo grafico ci mostra come se le dinamiche nel prezzo del petrolio non cambieranno e drasticamente la situazione apparirà insostenibile già dal prossimo anno. E la guerra contro lo Stato islamico potrebbe essere un danno collaterale di questa situazione, un danno che però nessuno può permettersi in questo momento. 

Inoltre, il quadro è decisamente generale, visto che a livello mondiale i produttori devono trovare mezzo triliardo di dollari per ripagare i propri debiti e più di qualcuno non ce la farà, innescando default sul debito ad alto rendimento e quindi inviando scossoni finanziari sul comparto energetico. Il numero di compagnie petrolifere e del gas i cui bond hanno rendimenti sopra il 10%, segno di stress finanziario evidente, sono triplicate lo scorso anno, con 168 ditte in Nord America, Europa e Asia sedute su questa montagna ticchettante di debito, la cui ratio rispetto agli utili è la più alta da venti anni a questa parte. 

Per Kimberly Wood, socio dello studio Norton Rose Fulbright di Londra, specializzato in fusioni e acquisizioni nel comparto petrolifero, «se il prezzo resterà sotto i 40 dollari al barile, allora lo shakeout potrebbe essere davvero profondo. Il volto stesso dell’industria potrebbe cambiare nei prossimi 5-10 anni e se le quotazioni non risaliranno, il numero di bancarotte e accordi non profittevoli è indubitabilmente destinato a salire». Il primo grafico a fondo pagina ci offre una visione d’insieme. I costi di servizio del debito cresceranno per il resto di questa decade, con 72 miliardi di dollari a maturazione quest’anno, 85 miliardi nel 2016 e 129 miliardi nel 2017, stando a dati della Bmi Research. Nei prossimi cinque anni andranno a scadenza 550 miliardi di controvalore in bond: il 20% di questo totale sarà in carico a produttori Usa, il 12% a quelli cinesi e il 9% a quelli britannici. Negli Usa il numero di bond con rendimento sopra al 10% è quadruplicato arrivando a 80 lo scorso anno, mentre sono 26 le aziende europee in questa categoria di rischio, tra cui la Guld Keystone Petroleum e la En Quest Plc. 

E purtroppo questo calo delle valutazioni ha portato anche alla rottura verso i minimi di alcune metriche di utile, visto che il margine di profitto per i 108 membri del Msci World Energy Sector Index, che include giganti come Exxon Mobil e Chevron, è il più basso dal 1995, il primo anno di tracciatura del dato. Per Erik Rohmesmo, analista del credito alla Clarkson Platou Securities, «ci sono molti crediti che semplicemente non saranno in grado di rifinanziare ed estendere le scadenze e potrebbe avere bisogno di racimolare equity addizionale. Il problema è: saranno in grado con il debito a questi livelli?». Fino a oggi, alcuni produttori Usa sono stati in grado di guadagnare tempo e spazio operativo grazie al leverage sui loro assets a basso costo per finanziarsi all’inizio dell’anno e ripagare i debiti, un qualcosa che ha abbassato il costo del servizio, ma il secondo grafico ci mostra come difficilmente potranno utilizzare nuovamente questa opzione, visto che le aziende del comparto energetico sono state le peggio performanti tra i 10 gruppo industriali nel Msci World Index. 

Inoltre, incombono i downgrade dei rating di queste aziende, un ulteriore ostacolo sulla strada di queste compagnie verso un finanziamento a basso costo: in aprile Standard&Poor’s ha tagliato la valutazione di Eni, mentre Moody’s ha operato il downgrade del debito di Tullow Oil a marzo. Insomma, in situazioni simili i players più grandi sopravviveranno, nonostante perdite dolorose e ridimensionamento degli investimenti, mentre i più piccoli, quelli che dipendono da assets minori, potrebbero avere problemi molto più seri. E, possibilmente, non superare questa crisi. Insomma, prospettive fosche. 

Non è detto, perché ci sono anche indicatori che parlano un’altra lingua e che ci dicono che i mercati fisici del greggio si sono stabilizzati, se non rinforzati, nelle ultime settimane anche grazie alla Cina, la quale sta sì rallentando come economia ma continua a sfruttare i bassi prezzi per riempire al massimo le proprie riserve strategiche, come mostra il terzo grafico. 

 

 

 

La Cina infatti ha creato due siti aggiuntivi di stoccaggio capaci di contenere 50 milioni di barili nella seconda metà di quest’anno e tra gennaio e luglio Pechino ha comprato più di 500mila barili al giorno, un netto surplus rispetto alle sue reali esigenze, stando a dati di Bloomberg. Oltretutto, con la domanda di benzina che il mese scorso è salita del 17%, il tasso di aumento mensile più alto dell’anno. Insomma, le pressioni sui prezzi sarebbero più finanziarie che fisiche. Un altro indicatore è quello che ci mostra il primo grafico a fondo pagina, ovvero il gap tra il contratto sul Brent a inizio mese e i futures per spedizione a 12 mesi che è sceso dagli 11 dollari di gennaio ai 6 della scorsa settimana, stando a dati dell’Ice. 

Cosa significa? Che il surplus di offerta oggi è meno grande di quanto non fosse a inizio anno, quindi è in corso una stabilizzazione delle dinamiche di mercato. Inoltre, il secondo grafico ci mostra come lo spread tra il Brent e Dubai, il benchmark per l’area asiatica, è il più da molti anni, segnale di una continua forza nella domanda asiatica verso l’offerta medio-orientale. Infine, il fatto che il Messico abbia terminato il suo programma di hedging, garantisce un sollievo al mercato e quindi alle pressioni finanziarie sui prezzi. 

Attenti alle dinamiche del petrolio, contano molto più dei tonfi e dei rimbalzi da gatto morto della Borsa cinese. E sono alla radice dei conflitti. 

 

(2- fine)

 

 







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