SPY FINANZA/ Il “salvataggio” dell’euro che ha distrutto un popolo

- Mauro Bottarelli

Un documento dell'Independent Evaluation Office del Fondo monetario internazionale, spiega MAURO BOTTARELLI, mette sotto accusa le ricette del Fmi stesso usate in Grecia

lagarde_christine_fmi Christine Lagarde (LaPresse)

«La dirigenza del Fmi ha compiuto una serie di calamitosi errori di giudizio sulla Grecia, tramutandosi in euforica ragazza pon-pon del progetto euro, ignorando segnali di crisi imminente e fallendo a livello collettivo nel riconoscere un concetto elementare di teoria valutaria». Chi dice queste cose non è il sottoscritto, ma un panel interno allo stesso Fmi, il quale in un documento senza precedenti svelato dal Daily Telegraph descrive una «cultura della compiacenza, prona ad analisi meccaniscistiche e semplicistiche». 

È letteralmente impietoso il documento dell’Independent Evaluation Office del Fondo e se l’accusa più grave che muove è quella di aver, di fatto, distrutto l’economia e la società greche con le scelte compiute, mette il dito nella piaga anche dei salvataggi di Portogallo e Irlanda, visto che il trio nel periodo tra il 2011 e il 2014 ha preso in prestito dal Fmi il 2000% delle quote che avevano allocato, più di tre volte il limite normale e hanno pesato per l’80% di tutti i prestiti erogati dal Fondo. E c’è di più, perché gli investigatori del panel non hanno potuto avere accesso a molti documenti chiave: «Molti di essi, infatti, erano stati preparati al di fuori dei canali regolari, molta documentazione scritta su materie fondamentali non è potuta essere reperita. Il nostro lavoro, in alcune parti, non è stato in grado di determinare chi ha preso certe decisioni o quali informazioni fossero disponibili, quindi non siamo potuti risalire ai ruoli ricoperti dallo staff, relativamente alle decisioni prese». 

Ma nonostante l’opacità della gestione, le colpe sono chiare: non esistevano piani per contrastare una crisi sistemica nell’eurozona, né approcci per gestire un’unione monetaria multinazionale, per il semplice fatto che, aprioristicamente, si era deciso che nulla avrebbe potuto mettere a rischio l’area euro. Insomma, l’euro-entusiasmo ha portato a clamorosi errori di valutazione: «Prima del lancio della moneta unica, i comunicati ufficiali del Fmi tendevano a enfatizzarne i vantaggi. E i componenti dello staff che facevano notare la natura posticcia e artificiale di quel progetto, venivano isolati. Dopo un surriscaldato dibattito interno, il punto di vista che supportava l’euro prevalse». 

E questa visione pro-eurozona ha minato la visione dei problemi dal parte del Fmi per anni: «Il Fondo è rimasto inerme di fronte al problema della solvibilità del sistema bancario europeo e della qualità della supervisione nei Paesi dell’euro dopo l’inizio della crisi finanziaria globale. Questo anche a causa della facilità con cui il Fmi accettava le versioni tranquillizzanti delle autorità europee». Insomma, l’istituto guidato da Christine Lagarde ha sempre sottostimato i rischi creati da deficit di conto corrente in continua espansione e dal fluire di capitali verso la periferia dell’eurozona, di fatto negando la possibilità stessa che quel flusso di denaro potesse un giorno arrestarsi di colpo. «La possibilità di una crisi nella bilancia del pagamenti all’interno dell’unione monetaria era vista come qualcosa di impossibile, tanto che ancora nel 2007 il Fmi pensava, relativamente alla permanenza della Grecia nell’euro, che la disponibilità di finanziamento esterno non rappresentasse una preoccupazione». 

E ancora: «In un’unione monetaria, le basi delle dinamiche di debito cambiano quando le nazioni utilizzano politiche monetaria e strumenti per l’aggiustamento dei tassi. E questa dinamica può essere amplificata dal feedback vizioso tra banche e debito sovrano. Di fatto, in Grecia il Fmi ha violato una delle sue regole base quando nel 2010 ha siglato un bail-out pur sapendo che non esistevano rassicurazioni sul fatto che questo avrebbe riportato il debito nazionale sotto controllo o creato i presupposti per la ripresa: e molti sospettavano un esito infausto fin dal principio». 

Poi, la bomba, ancorché nota a tutti da tempo: «Se le azioni del Fondo erano comprensibili nel pieno della crisi, l’amara verità è che il bail-out ha sacrificato la Grecia in quella che possiamo definire “un’azione di contenimento” per salvare l’euro e la banche del Nord Europa. La Grecia ha patito il tradizione shock dell’austerity imposta dal Fmi, senza però beneficiare dell’off-setting costituito da azioni di sollievo sullo stock di debito e svalutazione per ristabilire una capacità di funzionamento dell’economia». Un sotto-report dedicato unicamente alla Grecia dice chiaro e tondo che la nazione fu costretta a subire uno squeeze fiscale senza precedenti, qualcosa come l’11% dl Pil nei primi tre anni di salvataggio: questo ha dato vita a una spirale ribassista auto-alimentante, quello che Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanza greco, definì “water-boarding fiscale”. 

Per il comitato, «agli stabilizzatori automatici non fu concesso di operare, aggravando così la pro-ciclicità della politica fiscale, la quale a sua volta ha esacerbato la contrazione economica». Peggio ancora, il tentativo di forzare una svalutazione interna attraverso il taglio deflazionario dei salari del 20-30% sia è rivelata una strategica autolesionista, visto che ha schiantato la base economica nazionale e mandato la traiettoria del debito in spirale rialzista: «Un problema fondamentale fu quello dell’inconsistenza tra la riconquista della competitività dei prezzi e il simultaneo tentativo di ridurre la ratio di debito su Pil nominale». 

Il Fmi pensava infatti che il moltiplicatore fiscale fosse di 0.5, quando in realtà era cinque volte più grande a causa della fragilità del sistema ellenico: il risultato è stato che il Pil nominale è terminato del 25% al di sotto delle proiezioni del Fmi e il tasso di disoccupazione è salito al 25% contro il 15% che ci si attendeva: «La magnitudo degli errori relativi alle previsioni di crescita della Grecia è stata straordinaria». Di più, «i piani altamente ottimistici di ottenere 50 miliardi dalle privatizzazioni si sono dimostrati enormemente fallaci, tanto che alcuni assets non avevano nemmeno una proprietà legale chiara. La cronica mancanza di realismo è durata fino alla fine del 2011, quando ormai il danno era fatto». 

Il problema è che gli errori del Fmi li hanno pagati e continuano a pagarli i cittadini greci, i meno in grado di sopportare un peso simile, il tutto in nome di una politica miope il cui unico scopo era preservare l’esistenza stessa dell’euro come valuta: «Se prevenire un contagio internazionale era una preoccupazione essenziale, il costo di questa prevenzione avrebbe dovuto essere pagato – almeno in parte – da quella stessa comunità internazionale che ne ha beneficiato». E sapete a cos’ha portato la folle politica del Fmi per far riguadagnare competitività alla Grecia attraverso tagli salariali? 

Ce lo dice il grafico più in basso su dati ufficiali del ministero delle Finanze: la nascita di una nuova categoria sociale, i neo-poveri, ovvero gente che, lavorando, guadagna meno dell’indennità di disoccupazione. Sono 126.956 i lavoratori che guadagnano un salario lordo di 100 euro al mese, mentre 343.760 quelli che possono contare su stipendi lordi che variano tra i 100 e i 400 euro al mese. Si tratta di lavoratori part-time a rotazione, i quali possono lavorare due, tre giorni la settimana o anche solo poche ore. Stando a dati dell’Ika, il principale fondo per la sicurezza sociale greco, il salario medio per lavoratori part-time varia tra i 400 e i 420 euro lordi al mese. 

In un mondo giusto, qualcuno al Fmi dovrebbe pagare per questo. E un conto molto salato. 







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