ALITALIA/ Quel decollo “impossibile” che pesa ancora sui contribuenti italiani

- Gianfranco Fabi

La vicenda di Alitalia resta un simbolo eloquente dei risultati disastrosi che può raggiungere uno statalismo diffuso, con la complicità di sindacati e politica, come spiega GIANFRANCO FABI

Alitalia_CarlingaR400 Foto Imagoeconomica

Il prossimo anno, nel 2012, a Monaco di Baviera si festeggeranno i vent’anni del nuovo aeroporto. Intitolato a Franz Joseph Strauss e destinato a diventare il secondo hub tedesco, dopo Francoforte, aveva preso nel ‘92 il posto del vecchio e piccolo aeroporto di Reim che è stato completamente chiuso e sul cui terreno è stata realizzata la nuova Fiera di Monaco.

Come se a Milano si fosse deciso di concentrare tutti i voli a Malpensa chiudendo completamente l’operatività di Linate. Sarebbe stata una scelta drastica, che in qualche modo era stata comunque tratteggiata: nel ’95, infatti, il Governo aveva deciso di lasciare a Linate solo e unicamente la navetta Milano-Roma, trasferendo tutti i voli nella brughiera. In parallelo a questa scelta, la compagnia di bandiera, l’Alitalia, aveva puntato le sue carte su di una grande alleanza internazionale con l’olandese Klm, con la prospettiva di mettere l’aeroporto di Milano (Malpensa) in grado di attirare il traffico non solo italiano, ma di una vasta area dell’Europa del Sud.

Invece nulla di tutto questo. In una storia che può essere considerata il paradigma dell’incapacità italiana di fase sistema, di ragionare su grandi obiettivi, di fare scelte strategiche condivise. Malpensa ha tentato di diventare un hub (cioè un centro di smistamento del traffico), ma solo a metà, perché gran parte dei voli non solo italiani, ma europei, sono rimasti a Linate, favorendo così le grandi compagnie francesi, inglesi e tedesche che hanno potuto continuare a portare passeggeri ai loro hub di Parigi, Londra e Francoforte.

Il Governo ha fatto un passo in avanti, poi due indietro e uno di lato in fondo incapace di difendere le proprie ragioni di fronte all’Europa. Le infrastrutture che avrebbero dovuto collegare Malpensa al territorio sono state realizzate male e in ritardo. L’autostrada dei laghi è rimasta stretta e pericolosa e solo nel 2008 è stato inaugurato il raccordo con la Torino-Milano. La ferrovia non è stata collegata né alle linee urbane milanesi, né a quelle nazionali, mentre si sarebbe potuta realizzare una grande stazione internazionale sulla linea del Sempione, che passa a pochi chilometri.

E non è un caso che Monaco lo scorso anno abbia avuto, con 32,7 milioni di passeggeri, esattamente il doppio dei transiti da Malpensa. E così, invece, di segnare il rilancio di Alitalia la scelta (a metà) di Malpensa ha caratterizzato gli ultimi anni della compagnia vecchio stile. “Abbiamo dimostrato l’incapacità di fare sistema, mentre proprio il trasporto aereo richiede una forte strategia comune”. L’analisi di Domenico Cempella, amministratore delegato di Alitalia nella seconda metà degli anni ‘90 (e uno dei pochissimi che può vantare di aver chiuso qualche bilancio in attivo) è quanto mai realistica e pesante.

 

È contenuta nel libro di Lucio Cillis, giornalista di Repubblica, “Tutto quello che avresti voluto sapere su Alitalia e nessuno ti ha mai raccontato” (Newton Compton Editori, pagg. 180, € 12,90). Un libro che non solo tratteggia la storia della (ex) compagnia di bandiera, ma che raccoglie le testimonianze dirette di quanti hanno avuto un ruolo nello splendore (lontano), nella decadenza e nel tentativo di rilancio dell’Alitalia. Con interviste che spaziano dal comandante Adalberto Pellegrino, il profeta di “Aquila selvaggia”, al commissario liquidatore Augusto Fantozzi, dal ministro Maurizio Sacconi all’ex leader della Cgil, Guglielmo Epifani, per arrivare al presidente della “nuova” Alitalia, Roberto Colaninno.

 

Ne emerge la storia di una lunga serie di occasione mancate, delle lunghe mani della politica tese a condizionare scelte e strategie, di un’invadenza sindacale a garanzia di interessi corporativi che divengono talvolta anche soprusi. Emergono i vizi di uno statalismo diffuso, incapace di coniugare l’efficienza con la razionalità, abituato a non badare a spese perché alla fine comunque “paga Pantalone”. Emerge un mondo di interessi tutt’altro che in conflitto tra i sindacati, i manager della compagnia e i politici: tutti preoccupati solo dei piccoli (o grandi) privilegi piuttosto che non delle strategie a lungo termine e della necessità di affrontare i grandi cambiamenti del mercato.

 

L’Alitalia-story resta così uno dei simboli più amari dei vizi italiani, di un sindacato strenuamente impegnato a difendere il passato più che a guardare agli scenari del futuro. Una storia ancora più amara fino al 2008, anche perché l’esperienza di questi ultimi, pur difficili, mesi ha già dimostrato peraltro come con un piano industriale serio e una politica di gestione corretta è possibile puntare a unire l’efficienza del servizio alla redditività economica. Anche in una compagnia aerea.





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