SPILLO/ Le città metropolitane di Renzi: dov’è la democrazia?

- Matteo Forte

MATTEO FORTE ci spiega la riforma renziana delle città metropolitane: non sarà più garantito il diritto di rappresentanza di ogni singolo comune, saranno elezioni di elites?

matteorenzi_appunti_leopoldaR439 Matteo Renzi (Infophoto)

Parallelamente alla discussa riforma del bicameralismo, dal cui esito parrebbero dipendere le magnifiche e progressive sorti del Paese, sta entrando a regime la legge Delrio – dal nome del numero due del Presidente del Consiglio Matteo Renzi – che manda in pensione le province e istituisce le città metropolitane. Una piccola rivoluzione per quel che riguarda gli enti locali. Un provvedimento di cui lo stesso Renzi aveva auspicato l’approvazione in tempi brevi nel suo discorso programmatico del 24 febbraio scorso. Il combinato disposto della riforma del Senato, della legge elettorale e dei nuovi enti territoriali, specie quelli che si collocano tra Regione e Comune, rischiano di trasformare il potere legislativo e quello amministrativo in qualcosa di autoreferenziale ed elitario. Del Senato e dell’Italicum si sa. È nota la disputa sulla non eleggibilità dei nuovi senatori. Così come si sa che nella proposta di modifica della legge con cui si vota per la Camera dei deputati permangono le liste bloccate. Meno si sa in merito alle future città metropolitane.

Innanzitutto si tratta di un intervento statale che atrofizza l’iniziativa dei Comuni e delle comunità locali. Nella legge n. 142 del 1990, in cui per la prima volta il legislatore parlava di aree metropolitane, si seguiva il tracciato dell’art. 133 della Costituzione: esse sorgevano su «adesione della maggioranza dei comuni dell’area interessata, che rappresentino,  comunque,  la  maggioranza della popolazione complessiva dell’area stessa» (art. 16, comma 2, lettera d), o istituite dalle regioni «sentiti i comuni e le province interessate» (art. 17, comma 2). Nel 1990 si prevedevano per ogni area metropolitana un sindaco ed una giunta, oltre a «le  tasse,  le  tariffe  e  i contributi sui servizi ad essa attribuiti» (art. 19, comma 2). Nella legge Delrio le città metropolitane sono istituite dall’alto per decreto, sono prive di giunta e non hanno alcuna autonomia impositiva.

La città metropolitana del governo Renzi non è espressione delle autonomie locali, bensì della peggiore partitocrazia. Anche in questo caso, come per il Senato, si è deciso di escludere la partecipazione dei cittadini alla composizione degli organi assembleari. Non parliamo di un ramo del potere legislativo, e ciò costituisce una differenza sostanziale. Può avere una sua logica, quindi, individuare nei soli sindaci e consiglieri dei comuni dell’area metropolitana l’elettorato attivo. Soprattutto se si considera che i sindaci sono eletti direttamente e i consiglieri, a differenza dei parlamentari che a tutt’oggi vengono nominati, votati attraverso le preferenze. E sindaci e consiglieri sono eletti direttamente dagli stessi cittadini delle comunità che insistono sull’area metropolitana. I componenti di diritto il consiglio e la conferenza metropolitana, dunque, sono già stati legittimati democraticamente per accedere alla carica che ricoprono. Sarebbe necessario, semmai, che ciascuno di essi sia effettivamente messo nelle condizioni di rappresentare gli interessi della propria comunità, secondo il suo specifico peso, all’interno di un territorio tutto sommato omogeneo. Perché è del tutto evidente che Milano non può avere lo stesso peso – con il dovuto rispetto – di Vizzolo Predabissi. Se non altro in termini di Pil prodotto e di tasse versate.

Da questo punto di vista la strada che l’intervento normativo avrebbe dovuto percorrere era, a mio avviso, una: garantire ad ogni comune il diritto di rappresentanza, esprimendola in modo unitario, cioè in quanto istituzione, e proporzionalmente alla propria dimensione demografica. Oggi non è così. Come già detto si è scelta una logica totalmente partitocratica. Tra l’altro in modo del tutto paradossale, perché la riforma è stata motivata dalle peggiori spinte demagogiche dell’antipolitica con le quali si è arrivati a togliere i compensi e a non stipendiare i politici che comporranno queste assemblee istituzionali. Del resto si sa: le classi dirigenti locali sono centri di corruzione e sprechi – dice la vulgata. Quindi, da un lato si affama la bestia e dall’altro si costruiscono delle regole per cui solo i grandi partiti possano partecipare e determinare a priori i componenti. Peggio dell’ormai celeberrimo porcellum. Si prenda il caso di Milano. Pisapia ha indetto le elezioni per la città metropolitana. La data prevista è il 28 settembre. Quella di promulgazione del decreto il 19 luglio. Il termine per depositare le liste che concorreranno alla composizione della conferenza statutaria l’8 settembre. Considerando l’inevitabile pausa estiva del mese d’agosto, sarà pressoché impossibile raccogliere le 104 firme di sindaci e consiglieri dei comuni dell’ex territorio provinciale necessarie per presentare candidati. Oltretutto perché non sono chiare le modalità di adesione e raccolta. E perché non esistono elenchi dell’effettivo elettorato attivo che siano a disposizione degli interessati. Manca un apposito regolamento e la legge non è affatto puntuale. Sarà impossibile insomma, tranne che per i grandi partiti che possiedono all’interno delle proprie segreterie tutti i nominativi degli eletti nelle proprie file. In questo modo si selezionano già in origine le possibile liste concorrenti. In più non è ponderata la presenza dei comuni all’interno degli organi della città metropolitana, come sarebbe stato logico in un ente di questo tipo, bensì lo sarà il voto dei consiglieri chiamati alle urne. In sostanza: il voto di un singolo consigliere comunale di Milano varrà circa 714. Il voto di un consigliere di un altro comune della fascia demografica immediatamente successiva a quella del capoluogo lombardo, invece, una sessantina. È evidente come basti un accordo politico, tra i partiti, all’interno di Palazzo Marino per “pilotare” le elezioni di tutta la città metropolitana. A tanto è giunta l’irrilevanza della concezione di politica intesa come servizio al bene comune.

Non appare affatto banale, allora, ricordare le parole di uno dei nostri padri costituenti come Roberto Lucifero D’Aprigliano. Sebbene riferite al Parlamento, valgono per analogia anche per gli enti locali e per il tema in oggetto. L’onorevole liberale, intervenendo il 20 dicembre 1947 nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, dichiarò: «È spiacevole dire questo: ma la democrazia, purtroppo, è fatta di scelta di popolo e non di elezione di élites e noi non possiamo ammettere che le segreterie di partito, che già costituiscono delle élites, nominino deputati per loro conto e spesso contro la volontà del popolo».





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