Tempo di Sede vacante in attesa del nuovo papa. Il circo mediatico mondiale è accampato a Roma. Tutti in attesa. Ma Cristo c’è già
“Excuse me, mi direbbe due parole sul Papa?” e microfono o registratore si approssimano al mento. Se poi si indossa uno zucchetto rosso l’approccio cortese si trasforma in assalto. È il circo mediatico mondiale, la variopinta carovana dei contastorie addetta a raccontare le cose di quaggiù, comprese quelle imparentate con le cose di Lassù: al momento la plurilingue comitiva è accampata a San Pietro.
Passeggiare per il piccolo rione romano di Borgo, adiacente al Vaticano, messo a soqquadro a ogni morte di Papa e a ogni Giubileo – e dunque in agitazione acuta questi giorni causa la congiunzione, perdipiù pasquale, dei due eventi – è esperienza che ogni volta inclina al sorriso e alla riflessione.
Innanzitutto sulla città di Roma, sul singolare destino dell’Urbe nella storia dell’Orbe, segnato dalla presenza di Pietro e di Paolo che decisero di annunciare qui, nell’allora centro del mondo, la Buona notizia che salva l’uomo e che qui effusero il loro sangue di martiri della fede in Cristo Gesù. Da duemila anni, salvo sporadiche eccezioni, è Roma il teatro dell’avvicendamento dei pontefici, che però non è una vera e propria staffetta: chi finisce la sua corsa non sceglie lui in quale mano passare il testimone, ogni Papa crea gli elettori del suo successore, i quali si prendono un po’ di tempo per decidere.
È il tempo della Sede vacante, che si apre con un compianto e si chiude con un giubilo. Questa procedura millenaria, coi suoi riti e le sue usanze, incuriosisce il mondo contemporaneo che, benché secolarizzato, punta per qualche settimana lo sguardo collettivo qui, alla spasmodica ricerca di news (vanno bene anche quelle fake) nel luogo in cui la Good News fu sparsa duemila anni fa.
Ecco il perché del nugolo di telecamere e giornalisti d’ogni parte convenuti in questi giorni a Roma: dentro quelle liturgie sempre uguali germina l’attesa di imprevisto.
Certo, a cose finite poi “al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno” o, con le scettiche parole del romano Belli: “Bbe’? cche Ppapa averemo? È ccosa chiara: O ppiù o mmeno, la solita canzona”. Epperò, almeno per un istante, il desiderio, la speranza d’una novità, avrà fatto capolino.
E come viene riempito il tempo della Sede vacante? Con molte parole in libertà, con discettazioni su valori e disvalori del pontificato trapassato e congetture sull’identità della prossima veste bianca, il tutto miscelato con i propri piacimenti e le proprie ubbie. Se ne sentono di ogni, a dire il vero più in tivù che per strada, dove prevale una generica, umana curiositas per il frizzante clima di eccitazione collettiva e di fisico affollamento nell’abbraccio lapideo berniniano.
Sarebbe bello se dentro questa peculiare papolatria in absentia pontificis – ringraziando il Signore per il Pastore che ci ha donato e per quello che ci donerà – facessimo risuonare nei cuori, proprio in questo frangente senza il Vicario di Cristo, le parole intramontabili dello starec Giovanni: “Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità”. È attorno a questa Good News che ruota tutto il resto.
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