In prossimità del conclave Andrea Riccardi sta agendo a tutto campo. Manda messaggi su tutto, senza più separare il commentatore dal lobbista
Non più tardi di tre anni fa, Andrea Riccardi lasciò correre volentieri – se addirittura non alimentò – le voci di una sua candidatura a presidente della Repubblica. Naturalmente i rumor si rivelarono subito privi di alcuna consistenza, mentre il Parlamento italiano optava per la conferma al Quirinale di Sergio Mattarella in alternativa al premier in carica Mario Draghi.
Riccardi, dal canto suo, non contava sulla minima esperienza politico-istituzionale, salvo quella di ministro tecnico del governo Monti e di co-fondatore di Scelta Civica, improvvisato partitino euro-tecnocratico, peraltro non malvisto dall’allora segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone.
Nel 2013, tuttavia, rinunciò prudentemente alla candidatura parlamentare, schivando così il sostanziale insuccesso elettorale di Scelta Civica e il suo rapido declino politico. Nella sua vita lo storico romano è stato d’altronde para-candidato ad altro: a sindaco di Roma e perfino a cardinale di Santa Romana Chiesa.
Alla vigilia dei primi concistori di Papa Francesco erano consistenti le voci che davano per possibile l’assegnazione della porpora a un non presbitero. Il nome più gettonato era quello di Enzo Bianchi, priore della Comunità ecumenica di Bose, che però rimase fuori dalla lista e finì in seguito sanzionato dalla Santa Sede. Riccardi fu però ancora una volta lesto nell’infiltrare nel gossip il proprio nome.
È forse sulla scia di questo continuo hype mediatico che Riccardi si sta muovendo in questi giorni come un conclavista a pieno titolo o anche di più: come un insider influencer e un power broker di primo livello nel cuore Sacro Collegio. È stato così che ieri – a ridosso di un’importante intervista rilasciata dal cardinale Camillo Ruini – Riccardi ne ha concesse due.
Certo, Ruini è stato per sedici anni presidente dei vescovi italiani, con l’appoggio sempre largo dei confratelli e capace di risultati importanti nel confronto politico-culturale interno al suo Paese. Un leader indiscusso, che nel conclave 2005 ha non a caso meritato voti al primo scrutinio esplorativo assieme a Joseph Ratzinger – eletto poi il giorno dopo –, Jorge Mario Bergoglio e Carlo Maria Martini.
Oggi il 91enne Ruini – non più elettore – partecipa quotidianamente alle congregazioni generali, dove ai porporati è già stato ricordato il divieto canonico di ogni forma immaginabile di “voto di scambio” fra elettori. Meno che mai attraverso lobbisti laici, per quanto capaci di postare su un account social la foto di un faccia a faccia con il presidente francese in una trattoria romana alla moda, poco dopo le esequie del Papa.
Nel frattempo non è facile tenere assieme i pezzi delle due interviste di Riccardi al Corriere della Sera e al Foglio. C’è l’ansia di smarcarsi nelle vesti apparenti di osservatore distaccato, di vaticanista veterano, quasi commentatore di lusso nella tribuna di un big-match di Champions League. Capace tuttavia di fulminare un giocatore per un semplice passaggio sbagliato, di sorvolare su un rigore plateale non concesso dall’arbitro, di amarcord dolci o velenosi a seconda delle tifoserie abbonate o del peso politico-finanziario dei club in campo. Di qui – nelle due interviste – un intero campionario di “topoi” retorici da campagna elettorale.
“Con Parolin ci diamo del tu, ha la possibilità di diventare Papa perché conosce il mondo”. Però “si è ancora in alto mare” (scilicet: sbaglia chi prevede subito all’inizio del conclave un referendum potenzialmente risolutivo sul segretario di Stato). “Zuppi è un nome, non un candidato; è un prete vescovo, non è un uomo di sinistra, lo fanno di sinistra” (traduzione: so di aver commesso io un errore a parlare un mese fa al girotondo di Michele Serra, unico cattolico pro-eurocrazia e anti-destre, ma non potevo mica tradire Repubblica e il Pd).
“Un patto con Macron? Non esiste, abbiamo solo mangiato assieme due fettuccine”. “Si arriverà a ribadire l’unità della Chiesa” – ma non manca una citazione del conclave 1963, in cui per l’elezione di Paolo VI in Cappella Sistina fu letteralmente sfiorata la rissa. Papa Bergoglio, appena tumulato, gran tifoso di Sant’Egidio? “Un buon gesuita… e non bisogna scegliere il successore suo ma quello di Pietro”. Il Sacro Collegio? “È guidato dal cardinale Giovanni Battista Re”, leggi: antico curiale dell’era Wojtyła-Ratzinger, che però non entrerà in conclave. Le congregazioni generali? “L’aula non è chiusa, le voci passano, le chiacchiere corrono” (chissà cosa ne pensa il suddetto cardinale Re, nda). Eccetera, eccetera, eccetera: segnali, ammiccamenti, aggrottamenti di ciglia, battute, omissioni, silenzi.
Su Donald Trump un triplo carpiato degno di dettaglio. Con lui “la guerra mondiale a pezzetti si è intensificata”, ma è il presidente Usa ad aver richiamato al conclave “il problema dell’età del cardinale candidato, indice della durata del pontificato”. Scilicet: se la speranza di superare la temperie trumpiana è legata all’età avanzata del presidente Usa (e a un solo mandato quadriennale), attenzione ad eleggere a Roma un Papa giovane (ad esempio il 59enne Pierbattista Pizzaballa e forse anche il 67enne filippino Luis Antonio Tagle). Che poi i giovani sono spesso anche conservatori: come il cardinale Giuseppe Siri, che nel 1958 era papabile contro il futuro Papa Buono, Giovanni XXIII. Ma l’arcivescovo di Genova aveva solo 52 anni e – motteggia lo storiografo Riccardi – “i cardinali volevano un Padre Santo, non Eterno” .
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.