I contagi schizzati verso l’alto, spinti dalla variante Omicron, non mettono sotto pressione solo il sistema sanitario. Anche l’industria, e segnatamente quella del food & beverage, deve infatti fare i conti con la recrudescenza della pandemia. A lanciare l’allarme è Sandro Bottega, patron dell’omonima azienda, eccellenza italiana nella produzione del prosecco e non solo. “Il virus, cui si affianca anche il sistema delle quarantene – dice Bottega -, mette in malattia a rotazione, dal 10% al 20% del personale di tutte le aziende, con gli ovvi problemi di produzione collegati. Questi non comportano solo un danno economico diretto come la mancanza delle consegne, ma in alcuni casi inducono danni ben più gravi, come il deterioramento delle materie prime fresche o la perdita della clientela. Così come le mucche devono essere munte ogni giorno, anche il vino quando è pronto deve essere imbottigliato e le vigne devono essere potate. E, al tempo stesso, se la grande distribuzione si trova con gli scaffali vuoti si rivolge a un altro fornitore”.
Ci si trova insomma davanti a una criticità che richiede immediati interventi. “Fino al 2021 i costi delle assenze del personale – spiega Bottega – sono stati a carico delle imprese. Nel 2022 ancora non si sa”. Ma il problema intanto si fa pressante. “Nel nostro caso, per esempio, si tratta di circa 6/7.000 ore all’anno, di cui una parte importante nell’ultimo mese dopo l’esplosione della variante Omicron. Il tutto è aggravato dal fatto che non si riesce a trovare sostituti perché il Reddito di cittadinanza, pur encomiabile nello spirito, disincentiva molte persone ad accettare un lavoro”.
E non è tutto. “La situazione si aggrava se si considera una visione ancor più generale del problema”, dice Bottega, che punta il dito contro la delocalizzazione, un fenomeno che “non ha portato soltanto alla perdita di posti di lavoro nel nostro Paese, al trasferimento del know-how ad altre popolazioni – continua Bottega -, ma anche alla mancata evoluzione normale che avrebbe il know-how stesso; in sintesi, non ci siamo venduti solo la nostra storia e tradizione, ma anche il nostro futuro. L’invito alla riflessione è quindi rivolto agli imprenditori che hanno delocalizzato alla ricerca di costi giustamente più competitivi, ma che al tempo stesso hanno perso anche la capacità innovativa dei propri lavoratori. Per evitare tutto questo, ci sarà bisogno di una generazione di imprenditori con visione di lungo periodo e saranno necessarie fiscalità sul costo del lavoro e sulle importazioni che permettano di armonizzare l’economicità della delocalizzazione, rendendola meno conveniente. È infine necessaria la creazione condivisa di un sistema Paese, fatto di imprenditori e mezzi di comunicazione capaci di valorizzare il prodotto italiano. Perché tutto quello che è italiano, costa di più perché migliore”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI