L’artigianato è una risposta alla crisi, non va “ridotto” o sopportato: è una risorsa

- Giorgio Vittadini

Gli artigiani sono i protagonisti di un settore che rimane una leva portante del sistema produttivo italiano nei suoi tre comparti, sub-fornitura, produzione e servizi. Accanto alla rilevanza quantitativa, quale è il valore dell’artigianato per l’imprenditoria e, ancora più in generale, per il lavoro nel nostro Paese?

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Gli artigiani sono i protagonisti di un settore che rimane una leva portante del sistema produttivo italiano nei suoi tre comparti, sub-fornitura, produzione e servizi. Accanto alla rilevanza quantitativa, quale è il valore dell’artigianato per l’imprenditoria e, ancora più in generale, per il lavoro nel nostro Paese? Una certa parte della cultura e delle ideologie dominanti concepisce il lavoro come luogo di alienazione e sfruttamento da parte del più forte contro il più debole e perciò ripropone, in forme diverse, una perpetua lotta di classe, una continua rivendicazione dei propri diritti con assenza di responsabilità e ricerca del merito. Altre ideologie à la page riducono l’imprenditore a un animal oeconomicus, le leggi di mercato a una lotta darwinistica per l’eliminazione del più debole, la “risorsa umana” in azienda a una commodity, come fosse il petrolio o altri mezzi di produzione di tipo finanziario o materiale.

Invece l’artigianato si smarca, nella teoria e nella prassi, da queste riduzioni. La sua forza sta tutta nella centralità della persona e delle persone, maestranze e titolari della ditta. In questo settore sono le persone che con la loro creatività e operosità generano innovazione e sviluppo, perché non sono ridotte a una risorsa umana, a un fattore della produzione, ma sono piuttosto una risorsa nella loro integralità, nella loro capacità creativa e generativa.

È questa, in realtà, la caratteristica di ogni lavoro che non venga concepito in modo ridotto, così come afferma don Giussani: «Le cose ci vengono incontro, un’emozione preme il cuore, una fantasia si apre alla nostra mente, una volontà di afferrare queste cose, di collocarle dentro un disegno, di farne materia di una figura nuova, insorge: così avviene che ognuno si trova sulla strada della creatività».

Questa verità, che vale per ogni lavoro, vale in particolare per l’artigianato dove il protagonista esprime un tratto della sua personalità nell’assetto stesso dell’azienda e nel processo produttivo. L’artigianato è la versione più innovativa e riuscita di quel capitalismo familiare che ha così grande parte nella nostra economia: «Il capitalismo familiare è infatti la versione moderna del cosiddetto capitalismo personale, che proprio nel mondo artigianale ha una lunghissima tradizione in Italia ed è costituito da tutte quelle attività imprenditoriali in cui impresa e imprenditore si sovrappongono (per esempio il nome stesso della società è quello dell’imprenditore, oppure il marchio sul prodotto riproduce il cognome dell’imprenditore, ecc.). L’azienda è il modo in cui la persona mette in gioco le sue idee, la sua voglia e capacità di rischiare, di intraprendere: d’altra parte il vantaggio competitivo dell’azienda è dato soprattutto dalle capacità e dalla reputazione della persona che la guida e che si identifica con essa. […] Dal punto di vista economico, il principale punto di forza della piccola impresa di famiglia è costituito dalla coincidenza che in essa si realizza tra proprietà e gestione: non essendoci bisogno di deleghe, vengono a mancare quelle situazioni di conflitto di interesse tra proprietari e manager, tipiche della grande impresa a proprietà diffusa, assai onerose per l’impresa stessa. Dal punto di vista ideale poi le imprese familiari rappresentano una ricchezza senza pari per la nostra economia, perché in esse trovano concretezza i valori dell’imprenditorialità e dello spirito di intrapresa, ovvero quella cultura d’impresa che significa capacità di assunzione del rischio non disgiunta però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa. Quindi, imprenditorialità, libertà e responsabilità: tre termini inscindibili, perché l’imprenditorialità ha bisogno di libertà e d’altronde non c’è vera imprenditorialità senza responsabilità».

 

Da questo punto di vista, il prodotto artigianale è significativo perché non è omologabile e porta i tratti dell’unicità e irripetibilità della persona umana: «Da questa prospettiva la ricerca della diversità, della non omologazione, della presenza – al contrario – delle tracce di un’umanità (quella dell’artigiano) è quella che contraddistingue qualitativamente la domanda di manufatti artigianali. Non tanto, quindi, un prodotto, una merce, nella quale identificarsi per i suoi significati, più o meno onirici, ma un manufatto nel quale trovare tracce di alterità, di umanità. In fondo tracce della persona. Cioè, in qualche modo, di se stessi».

 

Perché questo avvenga non si può però vivere di sogni. La creatività, l’immaginazione devono misurarsi con la realtà, così come dice ancora don  Giussani: «C’è qualcosa da rispettare, da riconoscere, da abbracciare, da accettare per poter creare. Così entra nella nostra mente e nelle nostre braccia, fin dentro il nostro cuore, un fattore che sembrerebbe ostile: la fatica. (“Con il sudore della tua fronte…”)[2]. C’è un’obbedienza che dal di dentro deve governare l’iniziativa in cui ti lanci, il rischio in cui ti cimenti. Innanzitutto, deve essere obbedienza a fattori che non sono totalmente alla tua mercé, che ti si propongono e che ti si impongono: devi rispettare questi fattori e tutta la fatica, in tal senso, deve essere abbracciata come parte della tua genialità creativa, e perciò del tuo amore e del tuo gusto fattivo»[3]

 

Anche queste affermazioni valgono per ogni tipo di lavoro, ma assumono un valore paradigmatico nell’artigianato, dove il titolare non si limita a dare ordini da dietro una scrivania, ma si assoggetta a quel lavoro manuale, fisico, in cui    la creatività diventa, nella generazione del prodotto, con il sudore della propria  fronte, obbedienza a condizioni precise, puntuali, materiali, indispensabili per dar vita a oggetti, oltre che belli, fondamentali per la vita quotidiana: dalle forbici agli infissi, al disegno su vetro, alla produzione di arredo, alla sicurezza, all’illuminazione. Da questa disponibilità ad obbedire al reale nasce un tratto non sempre sottolineato dell’impresa artigiana: la sua grande e umile capacità di cambiamento, la disponibilità maggiore che in altro tipo di imprese ad accettare di modificarsi in funzione delle nuove necessità che nuovi bisogni e mutate condizioni di mercato impongono.

Ciò si traduce, sotto il profilo economico, nel suo carattere fortemente innovativo, spesso sottovalutato a causa di uno stereotipo abusato e stantio che vuole gli artigiani chiusi in botteghe minuscole e polverose, spesso legati a professioni in via di estinzione, come dice ancora Marseguerra: «L’elemento unificante delle storie di artigiani di successo riportate nel volume può forse essere rintracciato nella capacità mostrata da questi imprenditori artigiani di produrre innovazione (di prodotto principalmente, ma anche di organizzazione, di marketing, ecc.). Eppure, il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un modello innovativo spesso chiamato “senza ricerca” per i bassi livelli di spesa in ricerca e sviluppo. Come è stato possibile per un tale sistema produrre innovazione in modo così consistente e per così tanto tempo? Il punto è, in estrema sintesi, che in molti dei settori di specializzazione italiana, la ricerca formalizzata, quella che tende ad essere svolta nei laboratori di ricerca delle imprese, negli istituti di ricerca pubblica e nelle Università (e che è colta dai dati sulla spesa in R&S), costituisce solo una parte della innovazione delle nostre piccole e medie imprese. Nei nostri settori di specializzazione più tradizionali, i fattori d’innovazione tendono ad essere il design, la progettazione, l’organizzazione, l’introduzione di nuovi macchinari, l’imitazione, ecc. Queste attività innovative, peraltro estremamente rilevanti per la competitività delle imprese e del sistema, sono essenzialmente applicative e non formalizzate, e ben difficilmente contabilizzate nei bilanci come spese in R&S».

L’Artigiano in Fiera è anch’essa un’impresa “artigianale”, un esempio di “capitalismo familiare” nato dalla creatività di un gruppo di amici che, come  spiega Antonio Intiglietta, suo fondatore, «ci porta a conoscere personalmente ogni singolo artigiano: in questo modo partecipiamo del suo destino e della scommessa che egli fa sul suo lavoro e sul suo possibile successo; analogamente partecipiamo ai suoi momenti di crisi e di fatica».

Una “ storia di storie” che, pur completamente immersa nel nostro tempo, affonda le radici nella nostra più autentica tradizione, in quelle fiere e mercati che per secoli hanno permesso lo sviluppo della nostra economia e di quella europea, attraverso scambi non solo commerciali ma anche, e forse soprattutto, culturali.

Non è quindi un caso che l’Artigiano in Fiera sia nato a Milano e ospitato dalla sua Fiera, erede di quella Fiera Campionaria tanto importante per la nostra ripresa economica nel dopoguerra e che rappresentò una riproposta, in chiave moderna, della fiera come momento di incontro di popolo, oltre che tra produttore e consumatore.

Solo un’ignavia, alimentata da pregiudizi ideologici, può far dimenticare, mentre si parla di economia e nuovo sviluppo, questa affascinante realtà.




Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000, p. 150.

Gen 3,19.

Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, 2000 cit., p.151.







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