I NUMERI/ Occupazione femminile, il dramma pronto a esplodere dopo il lockdown

- Alessandra Servidori

Finito il lockdown rischia di esplodere un grosso problema relativo all'occupazione femminile in Italia. Tante italiane potrebbero perdere il posto

lavoro_donna_carrello_lapresse Lapresse

“L’Italia ha affrontato con disciplina straordinaria l’emergenza coronavirus grazie all’impegno delle famiglie e in particolare delle donne che hanno svolto un lavoro eccezionale in questi due mesi.” È una litania ormai divenuta ricorrente e  paternitalistica molesta, quando ne hai la consapevolezza, ma la politica e il sistema sociale non si modificano e continuano a umiliare e a sfruttare questa situazione in cui il bollettino della disoccupazione femminile in Italia denuncia sofferenze e abbandono del mercato del lavoro soprattutto delle giovani mamme.

La cosiddetta conciliazione tra vita e lavoro così osannata dai media attraverso lo smart working rappresenta un carico di impegno assolutamente gravoso al punto tale che diventa impossibile ricorrere a questa modalità con i servizi educativi chiusi e i figli in casa (i piccoli da accudire i più grandi da aiutare a riempiere il vuoto del gioco sociale o dei compiti fatti a distanza con il computer). I dati ufficiali  recentissimi sono disastrosi: la disoccupazione ed esclusione delle donne dal lavoro vede una forbice  del 10% rispetto alla media Ue e con la riapertura  dopo il vuoto vi sono settori tradizionalmente a occupazione femminile come il turismo, il commercio e la ristorazione in grave difficoltà, ma anche la logistica che rappresenta un comparto strategico per il sistema-Paese.

Vi è una richiesta diffusa di liquidità, credito e semplificazione delle procedure del sistema aziendale con la prudenza  e  le norme di sicurezza richieste, ma l’economia  stenta a riprendersi e la partecipazione dei generi al mercato del lavoro è talmente diversa da configurare due diversi mercati, caratterizzati da diverse entità quantitative, tipologie contrattuali, forme di occupazione e relativo livello di stabilità, settori economici di occupazione e, al loro interno, anche da ruoli, professioni e qualifiche ricoperte.

Uno strumento particolarmente versatile, idoneo a ridurre le disuguaglianze di genere e a identificare strumenti condivisi di conciliazione tempi di vita-tempi di lavoro è la contrattazione collettiva, con particolare riferimento a quella aziendale. La questione della condizione occupazionale femminile bisogna affrontarla  solo mediante interventi di sostegno alla natalità e al lavoro di qualità delle donne. La crescita della partecipazione delle donne al mercato del lavoro non può realizzarsi a discapito della qualità dello stesso, come purtroppo si è verificato nei lunghi anni della crisi attraverso una crescita delle occupazioni a bassa retribuzione e l’aumento incontrollato del part-time involontario. Il principio di co-genitorialità e di condivisione delle responsabilità del lavoro di cura in tutte le fasi della vita familiare, per renderne effettiva l’affermazione, ha bisogno  di azioni che contrastino la perdita economica determinata dal mancato pieno apporto della componente femminile alla crescita e alla competitività, e che intendano il lavoro di cura un investimento di cui beneficia l’intera società.

La condizione della donna lavoratrice è soprattutto penalizzata dal difficile bilanciamento  dei tempi di vita e di lavoro, che spinge in basso (49,7% dato Istat, contro il 60,4% Ue) la quota dell’occupazione femminile fra i 15 e i 64 anni e che induce il 27% delle donne madri ad abbandonare la propria occupazione alla nascita del figlio, una quota enorme se confrontata a quella maschile (lo 0,5%). Secondo gli ultimi dati Istat c’è un differenziale nel tasso di attività pari al 19,2% a favore degli uomini rispetto alle donne e del 18,6% nel tasso di occupazione. Esiste un divario di genere anche in termini di lavoro non retribuito, nel quale le donne spendono in media 4 ore e 15 minuti al giorno, contro 2 ore e 16 minuti degli uomini.Vero è che il coronavirus ha rivoluzionato il modo di lavorare degli italiani e la paura della devastante pandemia ha consentito di dribblare le antiche resistenze al cambiamento e ora aziende e dipendenti si trovano in un mercato del lavoro diverso. E un aspetto importante è l’equilibrio delle famiglie, soprattutto quelle in cui entrambi i coniugi lavorano. Parlare di emergenza familiare equivale a parlare di “lavoro delle donne su cui ricade principalmente la cura dei figli”. E quindi non c’è da stupirsi se l’Italia ha uno dei tassi di partecipazione delle donne al mercato del lavoro tra i più bassi in Europa.

L’emergenza di queste settimane fa capire che dobbiamo dotarci di misure di conciliazione vita-lavoro che rendano possibile il lavoro delle donne e sostenere la natalità con fondi diretti alle famiglie perché l’avere dei figli sia una risorsa per tutti e non un costo. Secondo l’Eurostat, in Italia esiste un gap retributivo di genere, parametrato sul salario annuale medio, attorno al 43%, di almeno due punti percentuali superiore alla media europea (41,1%). La penalizzazione retributiva colpisce ancor più le lavoratrici madri per le rigidità dell’organizzazione del lavoro e per l’inadeguatezza del welfare aziendale: il Rapporto annuale Inps 2019 riporta una perdita del 35% dello stipendio delle donne occupate a seguito della nascita di un figlio. E il Rapporto annuale dell’Ispettorato nazionale del ministero del Lavoro riconferma con una gravità devastante che le dimissioni volontarie sono drammaticamente delle lavoratrici che denunciano dopo la nascita dei figli l’impossibilità di mantenere il lavoro in mancanza di sostegno dei servizi educativi. Anche perché è proibitivo il costo da sostenere per l’eventuale frequenza dei piccoli agli asili ammesso che ci siano le possibilità di iscriverli poiché in Italia  soprattutto le strutture 0/6 anni sono ancora al di sotto del 30% dei bambini  aventi diritto che è stata indicata come base dall’Ue per assicurare loro l’accoglienza. 

Secondo i dati della Fondazione consulenti del lavoro, il 13,5% delle italiane occupate non è ancora tornato al lavoro e se l’emergenza persiste molte saranno costrette a ridurre l’orario di lavoro, a continuare obbligatoriamente il telelavoro o a lasciare il proprio impiego. Se ciò non bastasse, un altro studio condotto dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica di Milano indica che solo la metà degli italiani collabora nelle faccende domestiche durante la quarantena. Inoltre, il 71% degli intervistati di sesso maschile ha dichiarato di essere convinto che, per le donne, “il lavoro è importante, ma quello che vogliono veramente è una casa e dei bambini”. 

In Europa la percentuale di donne inattive a causa di impegni di cura familiari ha raggiunto il 31%, con un peggioramento negli ultimi dieci anni. La sintesi della situazione attuale rispetto al goal5 di Agenda 2030, secondo Asvis, è questa. Donne sottorappresentate nelle posizioni manageriali, pagate meno degli uomini a parità di mansione svolta (un 16% in meno in Europa) e penalizzate pesantemente anche dalla pandemia che, come successo in passato con altre emergenze sanitarie come quella legata alla diffusione di ebola, ha mostrato di ingigantire tutte le disparità esistenti, comprese quelle di genere.

Qualcuno dirà che non è il momento di ragionare su questo: ci sono problemi più urgenti, adesso. E invece no. In buona sostanza sono 3 milioni le donne occupate, poco meno di un terzo del totale (9 milioni e 872 mila), con almeno un figlio di età inferiore ai 15 anni. E saranno proprio le mamme (o le donne in generale) bersaglio facile non solo della fase 0, ma anche della fase 2 fino alla fase 2+n. In questi due mesi di lockdown, le donne con figli hanno lavorato più dei papà, visto il loro impiego in servizi essenziali, dove la presenza femminile risulta più alta rispetto alla maschile. Su 100 occupate con almeno un figlio con meno di 15 anni, 74 hanno lavorato ininterrottamente (contro 66 uomini nella stessa condizione), il 12,5% ha ripreso il lavoro dallo scorso 4 maggio, mentre il 13,5% dovrebbe ritornare alla propria attività entro la fine del mese.  E le lavoratrici che non hanno usufruito del lavoro agile, come le meno qualificate,  dovranno tornare in sede oltre che accudire i figli: sono 1 milione 426 mila (il 48,9% delle lavoratrici mamme), di queste circa 710 mila percepiscono uno stipendio netto inferiore ai 1.000 euro.

Del resto, l’Ispettorato del lavoro ci dice  che  il 27% delle donne lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Come a dire che la cura dei figli è solo delle mamme. I dati poi delle lavoratrici con figli o parenti disabili è tragico poiché i permessi retribuiti sono ancora troppo pochi e soprattutto la legge che ha riconosciuto i caregiver nel 2017 giace immobile senza regolamento per usare il Fondo di 25 milioni all’anno (sono già otre 75 milioni congelati) per poter avere un sollievo per le cure al congiunto. E il Governo  si è limitato a predisporre  solo  dei voucher limitati per la babysitter mentre c’è bisogno di un intervento di sistema per aiutare le donne a entrare e restare nel mercato del lavoro.

Serve ampliare il congedo parentale come ci indica la Direttiva europea del 2019  che dobbiamo recepire entro il luglio 2021, ridurre la tassazione con la fiscalizzazioni di vantaggio su lavoratrici e imprese, ampliare l’accesso al welfare aziendale verso la cura familiare con permessi retribuiti, ampliare i fondi bilaterali ora usati per la formazione verso l’uso dei congedi. La contrattazione collettiva è fondamentale e si può e si deve saper usare. Inoltre, abolire Quota 100 e Reddito di cittadinanza significa sostenere con le stesse risorse l’occupazione femminile.







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