Ritorno al passato per Robert Zemeckis, pioniere del lavoro sulla computer grafica nel cinema commerciale, del motion Capture, dell’interazione tra esseri umani e animazione in contesti liquidi e incorporei. Da Chi ha incastrato Roger Rabbit?, passando per molti film di transizione e sperimentazione tecnologica fino ad arrivare a Le Streghe (distribuito on demand dopo una presentazione alla Festa del Cinema di Roma), che non è il punto più alto o l’approdo ideale, ma è quello in cui l’utilizzo della tecnica digitale è al puro servizio di una storia per bimbi.
E che storia, un classico di Roald Dahl messo in scena con spirito sottilmente anarchico già nel 1990 con Chi ha paura delle streghe? di Nicolas Roeg: il protagonista è un ragazzino che ha causa di un incidente perde i genitori e si deve trasferire dalla nonna. Qui però incontra una strega: la nonna, esperta di magia, cerca di portarlo al sicuro, ma incapperanno in un albergo nel quale la Grande Strega Suprema (Anne Hathaway) sta organizzando un raduno per eliminare tutti i bambini.
Sceneggiatore con Kenya Barris e Guillermo del Toro, Zemeckis dirige un fantasy ad altezza di ragazzino – in senso letterale, viste le riprese dal basso, le soggettive dei topi in cui le streghe trasformano i bambini – che grazie al supporto dei due sceneggiatori diventa anche un racconto di formazione ambientato nell’Alabama degli anni ’60, in cui il razzismo c’è ma non si vede, in cui la caccia delle streghe ai bambini è una sorta di corrispettivo delle cacce che i neri subivano prima, dopo e durante le marce per i diritti civili.
Tutta la prima parte infatti, per ricostruzione storica e messinscena (le canzoni, per esempio), sembra guardare a un dramma e il finale – criticato per la direzione “politica” che dà al racconto – si ricollega all’allegoria razziale. Però per Zemeckis sono più questioni di contesto: a lui interessa l’avventura fantastica e la possibilità di fare in live action ciò che Pixar fece con l’animazione di Ratatouille.
Così, il vero film, il “suo” film parte quando dentro l’albergo si può dispiegare il malsano fascino per le streghe, a cui il regista dedica una descrizione minuziosa e divertita, con il gusto per il macabro caramelloso di un Tim Burton minore, e al contempo può far correre effetti speciali (di Travis Caverhill e Mark Holt) e la macchina da presa (fotografia di Don Burgess) in un’avventura spensierata.
Se non alla lettera di Dahl, Le streghe di Zemeckis sono fedeli allo spirito del racconto e dei tempi, sanno divertire e un po’ stupire, sono tutte sulle spalle gigioneggianti di Hathaway che, anche se non ha il carisma perverso di Anjelica Huston nel film di 30 anni fa, sa conquistare il pubblico, o almeno il suo pubblico. Perché il film non sarà piaciuto agli americani, ma non si può negare che il proprio target lo rispetta e sa come conquistarlo, nonostante il piccolo schermo.