Dopo un periodo di tensioni tra Usa e Cina, la prossima settimana dovrebbe tenersi l'incontro tra Donald Trump e Xi Jinping
Il viaggio di Donald Trump in Estremo oriente è cominciato all’insegna della buona volontà. Si concluderà giovedì in Sud Corea incontrando Xi Jinping per un colloquio a tutto campo, dalle tariffe alla guerra in Ucraina. Parlando a bordo dell’Air Force One, il Presidente americano ha detto che sui dazi entrambi dovranno fare concessioni per raggiungere un accordo.
Poi non ha resistito e ha aggiunto: “Loro faranno concessioni, siamo a un livello di tariffe del 157% non credo che siano sostenibili per loro”. A questo punto, il balletto delle percentuali fa girare la testa.
Quanto all’Ucraina, Trump vorrebbe che Xi lo aiutasse ad ammorbidire Vladimir Putin, lui non c’è riuscito ad Anchorage nonostante il tappeto rosso. La decisione cinese di ridurre gli acquisti di petrolio russo è sembrato un altro segnale incoraggiante.
Il rapporto tra Stati Uniti e Cina, avversari strategici che si sfidano su tutto, dai commerci alle alte tecnologie, dall’egemonia sul Pacifico al modello economico e persino politico, è fondato su un continuo gioco del gatto e del topo, con la conseguenza che nessuno può fare a meno dell’altro.
Nel suo tour asiatico Trump ha fatto tappa in Qatar dove ha incontrato il suo amico, l’emiro Al Thani il cui ruolo è stato decisivo per l’accordo su Gaza. Poi in Malesia parteciperà al vertice dell’Asean, l’associazione dei Paesi del sud-est asiatico, si recherà in Giappone e giovedì in Corea del Sud per l’incontro con Xi.
Anche se il Presidente americano spera di poter tessere una trama che contenga l’espansionismo cinese, è chiaro che solo una distensione tra Washington e Pechino, raggiunta attraverso un rapporto diretto tra i due capi di Stato, potrà avviare una nuova fase.
Sui dazi uno spiraglio si sarebbe aperto con i colloqui a Kuala Lumpur tra il segretario al Tesoro Scott Bessent e il Vicepremier cinese He Lifeng: al termine della prima giornata entrambi hanno definito l’incontro “molto costruttivo”. È evidente, tuttavia, che il lavoro degli emissari è destinato a contare poco di fronte alla chimica individuale, è lo stile di Trump, ma nemmeno Xi si discosta da questa diplomazia personalistica in teoria estranea alla tradizione cinese. E il resto del mondo è appeso alla incertezza del momento.
Dal Liberation day dello scorso aprile a oggi, la guerra dei dazi ha scosso le relazioni internazionali. La Casa Bianca ha colpito Pechino con tariffe del 145% alle quali la Cina ha risposto con il 125%. È stato uno choc al quale Wall Street ha reagito con una caduta che ha allarmato Trump e lo ha spinto a una frenata.

Ad agosto i duellanti hanno raggiunto una tregua estesa fino al prossimo 10 novembre con uno scambio di accuse sulle reciproche violazioni. La Cina ha imposto limiti alle esportazioni di minerali strategici lavorati, Trump ha minacciato tariffe del 100% per poi fare di nuovo marcia indietro.
Le sue minacce di embargo totale non sono ritenute credibili dal Governo cinese che ha steso i suoi tappeti rossi a Elon Musk e ad Apple, mentre intende usare l’Antitrust per colpire Google, DuPont, Nvidia, Qualcomm, gli altri giganti americani che operano in Cina.
L’industria high tech americana non può fare a meno delle terre rare e dei minerali lavorati dove la Cina ha il predominio assoluto (100% per la grafite, 90% per il manganese e via via il cobalto, il litio, perfino per l’alluminio supera il 50%). Non solo, il rifiuto di comprare soia americana colpisce al cuore gli agricoltori del Midwest che hanno votato in massa per Trump. Dunque Xi ha il coltello dalla parte del manico?
L’Economist è giunto a scrivere che “la Cina ha vinto la guerra commerciale” anche se è un successo momentaneo, conseguenza anche dal comportamento lunatico e incoerente di Donald Trump. Nello stesso tempo Xi Jinping si rende conto che non può sostituire il mercato americano con nessun altro, nemmeno con quello europeo.
L’economia cinese resta sempre dipendente dalle esportazioni. Il Partito comunista ha riunito il suo plenum questa settimana per discutere il prossimo piano quinquennale. Punterà in modo ancor più spinto sulle alte tecnologie per contrastare il primato americano, ma ha dovuto prendere atto che la strategia annunciata cinque anni fa, sostituire progressivamente la spinta del mercato interno a quella del commercio internazionale, non è riuscita.
Trump e Xi più tempo passa più assomigliano alla strana coppia della commedia di Neil Simon, di volta in volta si scambiano persino la parte, così che non si capisce bene chi sia Jack Lemmon e chi Walter Matthau, solo che non c’è nulla da ridere. Non era mai accaduto che le sorti del mondo fossero in mano a due uomini tanto quanto in questi anni, in un modo così incerto e inquietante.
Tutti gli altri aspettano e cercano di proteggersi. L’Unione europea e la stessa Italia stanno praticando la politica degli ombrelli, a mano a mano che si chiude quello americano, si aprono quelli dell’Unione e dei singoli Paesi, anche se nessuno è grande abbastanza.
Ciò vale per la difesa come per i commerci, tra sicurezza economica e sicurezza politico-militare il confine è più che mai sottile. Può darsi che giovedì il barometro volga al bello, ma nessuno sa quanto potrà durare.
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