ALITALIA/ Lo strano “appello” di Colaninno che sfida Air France

- Juanfran Valerón

La creazione di un fondo strategico da parte del Governo ha rilanciato le ipotesi di un ritorno di capitali pubblici in Alitalia. Il punto di JUANFRAN VALERON

Alitalia_ScalettaR400 Foto Imagoeconomica

Secondo un aforisma andreottiano, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. E c’è chi, pensando male, ritiene che gli strascichi del caso Parmalat avranno delle ripercussioni anche su Alitalia. Non tanto perché anche in questo caso c’è di mezzo un’azienda francese (Air France) che potrebbe (e avrebbe potuto già tre anni fa) mettere le mani su un’impresa che in molti reputano (al pari del latte) un asset non irrilevante del sistema Italia, quanto per il fatto che il Governo ha dato vita a un “fondo strategico” con la Cassa depositi e prestiti (Cdp) pronta ad assumere “partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale – che risultino in una stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico e siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività – che possiedono i requisiti previsti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanarsi” (art. 3 dello Statuto della Cdp approvato l’11 aprile scorso).

Decreto che non è ancora arrivato e che non è detto che arrivi a breve. Il “fondo strategico” era infatti nato come tentativo di osteggiare la “scalata” di Lactalis su Parmalat, potendo anche fornire supporto alla cordata italiana che non si è poi materializzata. Ma ora che la partita sull’azienda di Collecchio sembra essere definitivamente chiusa dall’Opa francese, che ragione c’è di regolamentare l’utilizzo di un fondo strategico apparentemente senza più scopo? Giuseppe Pennisi, su queste pagine, ha provato a spiegare che di obiettivi ben più importanti del latte l’iniziativa di Tremonti ne avrebbe anche, ma c’è chi non ha mai nascosto che l’attività del fondo strategico potesse andare ben oltre Parmalat, giungendo appunto ad Alitalia per dare supporto agli imprenditori “patrioti” che hanno dato vita a Cai.

Un’ipotesi che è stata in qualche modo confermata dalle dichiarazioni di Roberto Colaninno, presidente di Alitalia in un’intervista ad “Affari&Finanza”, supplemento economico de La Repubblica, del 18 aprile scorso (quando ancora la partita su Parmalat era ancora aperta). Già il titolo è eloquente: “Alitalia non sarà francese”. L’incipit, poi, è la secca domanda del giornalista Marco Panara “Alitalia diventerà francese?” con Colaninno a spiegare che non ci sono patti o impegni a vendere ad Air France e che non prevede al momento nulla del genere. Molto interessante anche il titolo del “giro” in seconda pagina: “Non vendo Alitalia ai francesi ma non dovete lasciarci soli”. Dopo un annuncio da “patriota”, si passa quindi a un appello.

Ed è qui che salta fuori il fondo strategico. Panara è molto diretto: “In pratica Alitalia avrà bisogno di soldi, il nuovo fondo creato da Tremonti con la Cassa depositi e prestiti sembra cadere a fagiolo”. Guardate bene le parole che usa Colaninno per rispondere: “Alitalia non ha bisogno di risorse per coprire le perdite, quelli li ha, ma per crescere, e allora ben vengano investitori orientati allo sviluppo a lungo termine. Se una azienda è capace di creare valore attrae investimenti da ogni parte del mondo, e l’Alitalia è sulla strada di farlo”.

A pensar male si potrebbe anche ritenere che Colaninno volesse dire: Alitalia può avere i conti in ordine e ha prospettive di crescita e redditività. Ben venga la Cdp, anche se gli investimenti possiamo trovarli dove vogliamo. Ovvero: Alitalia risponde alle caratteristiche richieste dalla Cdp per un suo intervento (rileggete pure il testo dello Statuto Cdp riportato a inizio articolo e confrontatelo con le parole di Colaninno), un suo intervento non ci darebbe fastidio, ma, sia chiaro, non stiamo pregando nessuno.

Attenzione anche a quest’altro passaggio. Panara chiede “Quindi la conclusione qual è: venderà o non venderà?” e Colaninno risponde: “Alitalia può dare grandi risultati, ma ha bisogno di risorse e di infrastrutture che rendano concorrenziale anche la parte che sta a terra. Se ci sarà un contesto di questo genere la mia intenzione e quella degli altri principali azionisti è di portare avanti il nostro progetto, perché si tratta di un ottimo investimento. Altrimenti saremo ben contenti se se la prenderà qualcun altro. E, aggiungo, non mi sentirò responsabile per questo”. Cioè, sempre a pensar male: se arriveranno fondi (che non ci servono per coprire perdite, sia chiaro) e se ci saranno miglioramenti infrastrutturali Alitalia potrà raggiungere grandi risultati. In caso contrario, meglio vendere, ma nessuno poi ci venga a dire che ci siamo voluti liberare di un pessimo investimento o che non siamo stati capaci di valorizzarlo.

A pensar male, quindi, si potrebbe in sintesi credere che il presidente di Alitalia non solo vedrebbe di buon occhio un investitore strategico orientato sul lungo termine (quale potrebbe essere la Cdp), ma che senza di esso e senza miglioramenti infrastrutturali sarebbe meglio vendere l’azienda. Ma non dimentichiamoci di un particolare non irrilevante. Colaninno, almeno stando alle sue dichiarazioni ufficiali, guarda ai francesi come all’extrema ratio.

Era infatti il novembre dell’anno scorso quando dalle anticipazioni dell’ultimo libro di Bruno Vespa si lessero queste dichiarazioni di Rocco Sabelli, amministratore delegato di Alitalia, a proposito dei rapporti con Air France: “La mia opinione personale, che trasformerò in una raccoman­dazione agli azionisti è di costruire un merger tra le due compa­gnie per confluire in un aggre­gato più grande”. Immediata fu la reazione di Colaninno: “Può essere un pensiero di Sabelli, ma non è condiviso dagli azionisti. Ne vengo a conoscenza solo in questo momento”.

La “sfida” interna tra la posizione di Colaninno (più patriota) e quella di Sabelli (più filo-francese) sembra essere però già arrivata al capolinea. Due giorni dopo la lunga intervista di Colaninno di cui sopra, sono circolate voci (poi smentite da Colaninno stesso, ma non dal diretto interessato) di dimissioni imminenti di Sabelli.

La soluzione a “prolungata” italianità per Alitalia, con tanto di zampino pubblico, non sembra quindi incontrare al momento grossi ostacoli (difficile credere all’ipotesi di un’acquisizione da parte dell’americana Delta lanciata da Finanza&Mercati: che se ne farebbe di un vettore concentrato sul mercato italiano?). Air France sembra destinata a rimanere un’importante minoranza nella compagnia italiana. A meno che da Parigi non si mettano dei soldi sul piatto e Sarkozy non torni a far visita al presidente del Consiglio.

Il 26 aprile scorso, infatti, giorno del vertice Italia-Francia e dell’annuncio dell’Opa su Parmalat, Silvio Berlusconi, a fianco del presidente francese, dopo aver definito “non ostile” l’operazione di Lactalis, ebbe a dire: “Ho una mia posizione personale su queste cose, vengo da una storia imprenditoriale e sono convinto che l’economia debba essere sempre e assolutamente libera”. Un netto “dietrofront”, evidentemente, rispetto a tre anni fa, quando ritenne “irricevibile” l’offerta di Air France per Alitalia. “Merito” di Sarkozy o senso di realeconomik? Difficile stabilirlo, l’unica cosa sempre più certa è che Alitalia, dopo essere già stata oggetto di libri e saggi, potrebbe entrare presto nel dizionario dei sinonimi e dei contrari alla voce “mercato”.





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