SCENARIO/ Le tre “anti-Leopolda” svelano i guai di Renzi (e dell’Italia)

- Stefano Cingolani

Matteo Renzi voleva celebrare la fine dell’era delle vacche magre alla Leopolda. Ma per l’Italia non è affatto un buon momento, anche a livello internazionale, ricorda STEFANO CINGOLANI

matteorenzi_appunti_leopoldaR439 Matteo Renzi (Infophoto)

Se Matteo Renzi con l’ultima Leopolda voleva celebrare la fine dell’era delle vacche magre, ebbene non poteva scegliere momento peggiore. Perché le cose non vanno affatto bene. Il capo dell’esecutivo continua con la tiritera sui gufi, ma non può non riconoscere la realtà. L’ultima tegola è il collasso di importanti banche locali. Al di là delle singole storie, la loro crisi mette in evidenza le debolezze strutturali del Paese. Il localismo sta esalando i suoi ultimi respiri lo ammette anche il suo inventore intellettuale, Giuseppe De Rita.

Quel sistema spartitorio e compromissorio, tra partiti, governi locali, banche, imprese pubbliche, private e cooperative, sindacati, nerbo del modello italiano, non regge più. Non era (e per molti versi non è) esattamente un modello limpido. Potremmo chiamarlo la variante italiana dell’economia sociale di mercato (chi conosce la Germania profonda sa bene che ci sono similitudini impressionanti tra i due paesi). Ci ha aiutato a galleggiare, ma la crisi lo ha scosso nel profondo.

Al netto di imbrogli che pure sembrano esserci, le banche sono fallite perché hanno prestato troppi quattrini agli amici degli amici, i quali non sono più in grado di restituirli. Non si è alimentato solo il notabilato locale, ma anche l’intero tessuto economico e sociale. Basta fare un giro a Siena, a quasi quattro anni dal collasso del Monte dei Paschi, per vedere che cos’è successo. Lo stesso può accadere ad Arezzo o a Pesaro. Anche Renzi è figlio di quel mondo e di quel modello, anzi potremmo dire che con lui il localismo s’è fatto Stato così come con Berlusconi si era fatto Stato il capitalismo della comunicazione e dell’effimero.

Può darsi che emerga un reticolo di conflitti d’interesse che costringeranno Maria Elena Boschi a pagare per suo padre e suo fratello, ma agli effetti di un ragionamento strutturale, non vittima della sola cronaca, questo è un problema minore. Molto più serio è il crollo di quel salvagente del modello italiano, un crollo che può non finire affatto con le quattro banche oggi nel mirino (del resto, lo ripetiamo, è cominciato con Siena e poi è arrivato a Vicenza con lo sconquasso delle banche popolari). Se le cose stanno così, Renzi avrà a che fare non tanto con qualche decimale di punto del prodotto lordo, ma con la necessità di trovare un diverso motore che regga la macchina economica dell’Italia.

L’altro serio grattacapo (anzi qualcosa di peggio) è il rapporto con l’Unione europea. Lasciamo stare se l’Ue ci aveva avvertito oppure no, se con noi sta applicando quel rigore liberista che non aveva applicato con la Germania, il fatto è che l’Italia torna a essere considerata poco affidabile. Non perché entrano in crisi alcune banchette locali, ma per com’è stata gestita la faccenda e perché, di riffe o di raffe, la classe politica si dimostra incapace di ridurre l’immenso ammontare del debito pubblico. Era uno degli obiettivi che si era dato Renzi fin dalla prima Leopolda, la verità è che non ha mai operato per realizzarlo, né lo scorso anno (ma allora era scusato dalla recessione che non finiva mai di finire), né quest’anno. Inutile frignare contro i cattivi tedeschi che hanno i loro problemi (Volkswagen docet), il debito è un fardello che alcuni italiani hanno messo sulle spalle di altri italiani.

Terzo guaio, il più grave di tutti, è il terrorismo islamico. Non possiamo certo buttarlo addosso a Renzi, qui lui non può farci niente. Ma il problema è che non che sa cosa fare. Non che l’opposizione offra qualche indicazione. I pentastellati vogliono che l’Italia si ritiri dalle missioni estere e non venda armi che possano finire all’Isis, richiesta legittima, salvo che poi se guardiamo agli armamenti del califfato la maggior parte viene dai paesi arabi, dalla Turchia, persino dal mercato nero (o meglio grigio) della Russia. Salvini vuole che si dica senza ipocrisie che siamo in guerra, ma poi combatte solo l’immigrazione sul territorio italiano. Forza Italia si affida a Putin, “il più grande statista contemporaneo”, e lo stesso Renzi finirà per fare lo stesso, sperando che dia una mano in Libia (anche se il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che loro lì non ci mettono piede, visto che non sanno chi comanda, né chi bisogna aiutare). Insomma, l’Italia è in un ginepraio dal quale nessuno è in grado di tirarla fuori.

Rispetto questi guai, davvero seri, passano in secondo piano i mal di pancia del Pd sui candidati alle elezioni locali. Non perché non siano problemi importanti in situazioni normali, ma perché la situazione non è affatto normale. E sarebbe bene che Renzi lo riconoscesse con onestà e sincerità, parlando in modo trasparente agli italiani, senza promettere nulla, se non di guidarli al meglio delle sue possibilità. Dire la verità non sarà rivoluzionario, ma certo aiuta.





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