CARCERI/ È possibile che diventino un luogo di ripresa?

- La Redazione

ilsussidiario.net fa un viaggio all’interno della realtà delle carceri, dove, attraverso il lavoro, è possibile ridare un senso alla vita dei detenuti, come spiegano nei loro interventi RICCARDO ARENA, giornalista e curatore di Radio Carcere, e CARMELO CANTONE, direttore dell’Istituto penitenziario di Rebibbia. Documentiamo inoltre le esperienze di lavoro dei carcerati di Padova (guarda il servizio del Tg1), attraverso la Cooperativa Giotto, e di Opera, con l’aiuto del network La Strada

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Prima di parlare di recidiva e di lavoro in carcere, dobbiamo intenderci su due aspetti della questione. Il primo. È vero, in carcere ci sono circa 53 mila detenuti. Ma solo 21.800 sono quelli condannati in via definitiva. Mentre gli altri sono in attesa di giudizio. Di conseguenza, quando parliamo di esecuzione della pena, di lavoro in carcere, è a queste 21.800 persone detenute che dobbiamo pensare. La seconda. È brutto scriverlo, lo so. Ma basta passare qualche ora in un corridoio di un carcere per rendersi conto che non tutte le persone detenute possono farci sperare per un loro, e nostro, futuro migliore. Come nella vita da “liberi”, così nella vita “detenuta” c’è chi sarà meno propenso al cambiamento, meno propenso a migliorare la sua vita.

Veniamo a noi.
La statistica: una percentuale molto bassa dei detenuti che lavora in carcere torna a delinquere, dall’1 al 5%. Gli altri no. Gli altri imparano un lavoro in carcere, e potendo lavorare da liberi, non scelgono il crimine, ma il lavoro. Dopo la pena, cambiano vita.
Un doppio risultato su cui riflettere seriamente.
Per noi cittadini liberi, significa maggiore sicurezza. Una pena utile. Una pena sensata. Una pena che dà al condannato una possibilità di scelta. È una pena che ci garantisce meno delinquenza per le strade e più sicurezza nelle case. Ovvero quello che, in effetti, tutti vogliamo.
Per lo Stato, significa risparmiare soldi. Eloquente il confronto tra due carceri. Il primo: carcere dell’isola di Favignana. I detenuti sono costretti a stare in celle degradate e messe a dieci metri sotto il livello del mare. La loro pena: restare chiusi in quella cella-caverna per 22 ore al giorno. Nel carcere di Favignana ogni detenuto costa 300 euro al giorno. Il secondo: carcere dell’isola della Gorgona. Tutti i detenuti lavorano. In cella vanno solo per dormire la sera. C’è chi fa il fabbro, chi l’agricoltore, chi il macellaio. Addirittura c’è chi fa il pescatore. Nel carcere della Gorgona ogni detenuto costa 170 euro al giorno.
Non credo che servano commenti. Ma una precisazione sì.

In Italia carceri come la Gorgona o come Bollate, dove il detenuto sconta la pena lavorando, sono dette “sperimentali”. Ed in effetti sono una rarità tra le 205 carceri nostrane.
La Gorgona, come Bollate, sono in funzione da anni. Danno ottimi risultati. Il condannato raramente torna a delinquere finita la pena. Per lo Stato queste carceri sono fonte di risparmio. Ma restano strutture sperimentali. Come dire: da noi ciò che funziona resta un esperimento, ciò che non funziona resta tale. Questo vale per il carcere, come per il resto.
È evidente che serve una nuova politica. Una politica che guardi al risultato, alla realtà. Nelle carceri, come nella nostra vita, non abbiamo bisogno di slogan, di propaganda, ma di soluzioni. Di alternative di buon senso. Nelle carceri, come nella nostra vita, abbiamo bisogno di una politica che riaffermi la priorità dell’individuo, sia esso detenuto, pensionato, malato o disoccupato. Nulla di difficile. Nulla di più lontano.


(Riccardo Arena)







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