SCENARIO/ Cosa accadrà se non si ferma la “guerra civile” tra partiti?

- Giovanni Cominelli

Una cosa è chiara: un Paese in guerra civile è un Paese dal futuro incerto, un Paese per vecchi. I giovani hanno poche chances, parecchi se ne vanno altrove. La politica è ripiegata sul presente

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Dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni il Paese ha conosciuto tre guerre civili. La prima è incominciata dopo l’8 settembre 1943, è stata una delle tre dimensioni – le altre essendo la liberazione nazionale e la lotta di classe – della Resistenza: sanguinosa, feroce, migliaia di morti, in alcune zone del paese è durata fino al 1947.

 

La seconda, a bassa intensità, è incominciata dopo la strage di Piazza Fontana, ha preso il volto del partito armato: centinaia di morti e feriti, è durata un decennio. La terza è cominciata dopo il 1989, non è ancora finita: niente sangue, ma lotta senza tregua tra le nuove sigle delle vecchie forze politiche del defunto arco costituzionale e le sigle dei nuovi arrivati.

La caduta del Muro nel 1989 ha tolto improvvisamente legittimazione alle due forze politiche principali: DC e PCI. La cortina di ferro era la loro forza. L’annus mirabilis fa saltare il vecchio arco costituzionale: DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI, cioè il vecchio Comitato di Liberazione Nazionale, costituito nel 1943, con qualche sigla diversa rispetto al 1946.

Negli anni dal 1989 al 1994 implodono tutti i partiti storici, avanzano nuovi movimenti e nuove forze politiche: Lega Nord (4 dicembre 1989), il Movimento referendario di Segni (10 febbraio 1990), Alleanza Democratica (15 luglio 1993), Forza Italia (18 gennaio 1994), Alleanza nazionale (27 gennaio 1995). Di Pietro non era ancora un partito politico, ma il giustizialismo era già un potente soggetto politico-culturale (dal 1992). Il bene e il futuro del Paese avrebbero richiesto che i vecchi e i nuovi si riconoscessero reciprocamente in un nuovo arco costituzionale, invece di chiudersi in un reciproco assedio.

Dal 24 gennaio 1997 al 9 giugno 1998 la Commissione bicamerale, presieduta da Massimo d’Alema, provò a definire un nuovo tessuto politico-istituzionale. Fallì per molteplici cause: l’ostilità ideologico-viscerale di parte degli ex-PCI e ex-DC nei confronti dei nuovi arrivati, considerati degli inquilini abusivi dei sacri palazzi della Repubblica; l’incerta linea politica, oscillante tra secessione e federalismo, della Lega, che prima entra e poi esce e poi rientra nella Commissione, e i calcoli politici di piccolo cabotaggio di Berlusconi, più interessato a vendicarsi del disarcionamento del 1994 e ad azzoppare l’unico cavallo di razza della sinistra, pur di far cadere il governo.

In effetti, poco dopo D’Alema andrà al governo per cadere nel 2000. Berlusconi vincerà le elezioni nel 2001, non combinerà granché, perderà le elezioni nel 2006, le rivincerà nel 2008. E tuttavia in tutto questo avvicendarsi di governi, l’istituzione-governo è rimasta debole e impotente, la guerra civile è continuata con alti e bassi.

Il Paese passa di governo in governo da quindici anni, le riforme necessarie sono di continuo rinviate, il rapporto tra le forze politiche è regolato dal principio della giungla: “a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia”. Ora, il PD si è abbarbicato alla Costituzione con gesti plateali, quale il giuramento di Franceschini sul testo della Costituzione. Ma ciò che ribadisce, oltre alla nostalgia dell’arco costituzionale del 1943, è l’ostinato rifiuto di riconoscere le nuove forze politiche, nuove da quindici anni!

Una cosa è chiara: un Paese in guerra civile è un Paese dal futuro incerto, un Paese per vecchi. I giovani hanno poche chances, parecchi se ne vanno altrove. La politica è ripiegata sul presente. Il primo passo è il riconoscimento. Costruire il nuovo arco costituzionale è la prima mossa da fare.

A chi tocca il primo passo? Alla maggioranza di turno. Ieri è toccato a D’Alema, oggi tocca a Berlusconi. Il reciproco riconoscimento precede qualsiasi idea sulla legge elettorale o sugli assetti istituzionali. L’esperienza di questo quindicennio dovrebbe aver mostrato con dovizia di prove che non bastano squillanti e ripetute vittorie politiche per governare il Paese.

Impegnata ogni giorno a vincere domani, lo sguardo chino sul presente qui e ora, la politica sta alla coda del Paese e ne riflette le angosce e il conservatorismo peggiore. Quella dei costituenti del ‘46 fu una politica aspra, attraversata dalla cortina di ferro, opposta da un conflitto di civiltà. Eppure varò una Costituzione. Soltanto il riconoscimento reciproco può riscrivere il dettato costituzionale, sia per quanto riguarda i principi sia per quanto riguarda le istituzioni.





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