SCENARIO/ Mannino: i Grillo, figli del giustizialismo di Tangentopoli

- int. Calogero Mannino

CALOGERO MANNINO, politico di lungo corso, più volte ministro Dc, analizza questa fase politica contraddistinta dal discredito per i partiti e dall'avanzata dell'antipolitica

DiPietroPisapiaOrlandoR400 Immagine d'archivio (Infophoto)

«In questi giorni si fa un gran parlare di antipolitica. Quelli che vediamo oggi però non sono altro che gli effetti di un’onda lunga partita nel ’92, che raggiunse l’acme nel ’94 e che determinò il sisma distruttivo dell’equilibrio politico e costituzionale della Prima Repubblica». L’On. Calogero Mannino, politico di lungo corso, più volte al governo con la Democrazia Cristiana, non sembra stupirsi più di tanto del livello di discredito che la classe politica italiana ha raggiunto, né del fenomeno Grillo e delle percentuali che i sondaggisti gli assegnano. «Il fatto è – spiega Mannino a IlSussidiario.net – che la Seconda Repubblica ha sostituito un sistema fondato sui partiti e si è caratterizzato per la contrapposizione tra due populismi: a sinistra impersonato da Prodi e a destra da Berlusconi. Alla fine di questo stadio, il Cavaliere, artefice e beneficiario, ne è stato travolto. L’onda del populismo però non si è arrestata. Oggi ha soltanto trovato uno ancora più arrabbiato, ancora più capace di fare spettacolo e ancor più povero di idee. Abile, tra l’altro, nel contrastarle e sposarle tutte, indifferentemente».

E la politica, come pensa di reagire?

Purtroppo è assente, anche se la situazione è estremamente grave: questo processo si realizza infatti mentre l’Italia è attraversata da una crisi economica con conseguenze sociali dalla portata sconosciuta. Come dicevo però, la politica è ancora epigonale: quella del Pdl è ancorata al fantasma di Berlusconi, quella del Pd a un progetto inesistente e quella di Casini alla sua condizione di naufrago-superstite. E qualunque richiamo al realismo che provi a contrastare l’antipolitica si infrange contro l’onda della protesta sociale. 

Anche il governo Monti ha qualche responsabilità in questo senso?

Guardi, gli italiani sono stanchi e arrabbiati. Questo governo ha messo tasse dappertutto e ha scelto la linea dura su molti temi, a cominciare dall’art. 18. La sua ricetta però non sembra né sufficiente né efficiente, perché la crisi si sta aggravando. 
Non ho nessun desiderio di catastrofismo, sia chiaro, ma quando vedo il trio Abc (che qualcuno ha già ribattezzato Caf) proporre la Grande Coalizione è evidente che si apre uno spazio enorme a un’opposizione che non ha nemmeno bisogno di sviluppare la propria proposta alternativa. Altro che 7%, Grillo può andare ben oltre…  

L’opposizione di Umberto Bossi e Nichi Vendola è stata quindi archiviata e sostituita?

Tutti i populismi finiscono di propria mano. Bossi nel ’93 agitò cappio e manette, oggi la scena si ripete con protagonisti diversi, i suoi. Detto questo le differenze con Tangentopoli sono evidenti. 

Quali sono secondo lei?

Dietro Mani Pulite c’è un grande punto interrogativo che ancora oggi non è stato chiarito. Ci fu infatti una spinta di forze meta-istituzionali che trovarono nella magistratura e in alcuni apparati dello Stato un riferimento operativo. 
Oggi invece, tutto sembra andare in malora spontaneamente. I partiti finiscono, divorati dalle debolezze interne, i dirigenti rubano in casa propria. Sembra un processo autofagico. Detto questo, è evidente che in questa stagione i pubblici ministeri non hanno più limitazioni.  

Non sembra nutrire molte speranze nella capacità della politica di autoriformarsi?

Purtroppo non è ho. Il problema della disciplina giuridica dei partiti era serio già ai tempi della Prima Repubblica, che non riuscì ad affrontarlo. Tant’è che oggi, a questo proposito, c’è un articolo della Costituzione che è rimasto eluso. 
I partiti attuali secondo lei sono davvero disponibili ad accettare una disciplina a livello organizzativo che li renda associazioni di fatto? No di certo: Bersani continuerà a controllare il suo tesseramento, Casini a maggior ragione, mentre Berlusconi non ne avrà nemmeno bisogno. 
È drammatico, perché questa strada porta dritti verso una fase post-democratica. E come dicevo, l’abbiamo iniziata nel ’94. 

Al centro però sembra muoversi qualcosa. 

Guardi, le notizie di questi giorni non mi coinvolgono di certo. Da un lato, la resurrezione, per effetto di una sentenza della Cassazione, della Democrazia Cristiana, uccisa politicamente nel ’94, potrà servire soltanto a organizzare una fondazione che ne conservi le memorie. Anche perché il patrimonio è già stato rubato. 
Dall’altro, al di là dei cambi di nome, i partiti si fondano quando esistono delle ragioni ideali, culturali e storiche per farlo. E non si può dire che oggi queste esistano. Il Pd, sino ad oggi, ha sempre rifiutato di diventare il Partito Socialista Italiano; adesso dopo la possibile vittoria di Hollande alle elezioni francesi, D’Alema prospetterà l’ipotesi socialista, che logicamente a sinistra non ha alternative. il Pdl sin qui è rimasto soltanto il partito di Berlusconi che, pur riposato, non ha altra prospettiva che mantenere un partito personale. E l’Udc di Casini, pur avendo rivendicato l’origine democristiana, ne ricusa la possibilità di rifondarla, infatti convoca le forze che usciranno dal Pdl a un appuntamento: quello del Partito della Nazione, che in termini di riferimenti ideali e storici è tutt’altro rispetto al Partito Popolare. La verifica sarà data dalle scelte che questo nuovo partito di Casini farà alle prossime elezioni politiche, credo ad ottobre. 

(Carlo Melato) 







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