L’INTERVISTA/ Padre Sorge: “Così vedo Renzi, l’Italia e la Chiesa”

- Francesco Inguanti, int. Bartolomeo Sorge

Dalla crisi della politica allo scontro dei poteri, a Renzi e al Pd, al cattolicesimo italiano, alla Chiesa come stato e alla svolta di papa Francesco. Parla padre BARTOLOMEO SORGE

bartolomeosorge_zoomR439 Bartolomeo Sorge (Infophoto)

Padre Bartolomeo Sorge, già direttore della rivista La Civiltà Cattolica e direttore emerito di Aggiornamenti sociali, è stata una delle personalità più in vista del cattolicesimo italiano negli anni ottanta e novanta, quando per un decennio, dal 1986 al 1996, diresse l’Istituto di formazione politica “Pedro Arrupe” di Palermo, il laboratorio culturale e politico dal quale scaturono la cosiddetta “primavera di Palermo” di Leoluca Orlando e la sua “Rete”, alleanza organica tra cattolicesimo democratico politico e forze di sinistra (poi confluita, nel 1996, nell’Ulivo di Romano Prodi). Padre Sorge ha tenuto di recente a Palermo una conferenza su “Papa Francesco: misericordia, giustizia e missione dei laici”, nella quale ha formulato un giudizio molto severo sulla crisi italiana. Lo abbiamo raggiunto per un approfondimento.

Padre Sorge, lei definisce la crisi italiana al tempo stesso strutturale e culturale. Qual è la radice?

Sta in un processo che ha messo in crisi la democrazia rappresentativa, il fatto cioè che oggi non si crede più nel valore della rappresentanza. E questo vale non solo per i partiti, ma anche per i sindacati, che sono in crisi profonda, perché la vera politica, quella con la P maiuscola, è la democrazia partecipativa, quella in cui ciascuno, secondo le proprie possibilità, collabora al bene comune. 

L’Italia ha una lunga tradizione sociale e politica fondata sull’esistenza e sull’azione dei corpi intermedi, ma questi sono stati oggetto di un lucida demolizione a partire già dal 1922, nelle ricerca di un rapporto diretto tra cittadini e politica. Sono ancora utili?

I corpi intermedi sono fondamentali, non si possono saltare. Questa è la tentazione del populismo e dell’antipolitica, che sono le due malattie più gravi della politica. Così abbiamo sentito dire da alcuni: “Se la magistratura mi perseguita, non importa, perché se il popolo mi vota il popolo è sovrano e a lui devo rispondere”. Oppure, altro esempio: “In Parlamento si perde tempo; vediamoci in un ristorante di Roma noi tre o quattro e decidiamo e poi gli altri votano”. Così i deputati sono ridotti a notai: devono solo fare quello che il segretario impone. Aldo Moro aveva intuito tutto ciò e non a caso parlava di “terza fase”. Bisogna arrivare — diceva — alla democrazia partecipativa di modo che ogni cittadino possa dare quello che può alla politica; ma questa è la cittadinanza attiva di cui i partiti hanno ancora bisogno.

Ma anche i partiti sono cambiati.

I partiti sono necessari, ma quelli di prima erano ideologici: c’era il segretario dall’alto che dava le direttive e in periferia bisognava solo adeguarsi. Così non può funzionare. Bisogna ripartire dalle città: non si può decidere a Roma quello che si deve fare a Palermo. Però bisogna partecipare e quindi ci sono questi passaggi intermedi che sono necessari. Per esempio: il voto di fiducia si può capire in certe circostanze, ma non può essere un’abitudine. Tornando a Moro, dobbiamo ammettere che non siamo riusciti ad avviare la terza fase, che prevedeva il passaggio alla democrazia partecipativa o democrazia matura. Se gli elettori ritengono inutile quello che votano perché altri decidono, questo è deleterio.

Quanto può aiutare, su questo punto, l’imminente riforma costituzionale sottoposta a referendum? 

Non si può riformare un punto se non si riforma l’intero sistema. Cambiare una ruota di un ingranaggio non basta, se non si mette mano a tutto l’ingranaggio. Credo che la semplificazione di una sola Camera fosse necessaria; capisco che il bicameralismo sia nato in contrapposizione ai guai causati del fascismo, ma oggi non è possibile che per cambiare una parola di una legge si debba tornare al voto dell’altra camera. Adesso si tratta di vedere se i contrappesi funzionano, quindi anche le altre riforme che andranno fatte, il rapporto con le Regioni, le competenze, eccetera. 

 

Lei contrappone ai due mali peggiori, il populismo e l’antipolitica, la buona politica. Ma come si fa a riconoscere se una politica è “buona”? 

A mio avviso è sufficiente attenersi ai quattro criteri che papa Francesco indica nella Evangelii Gaudium. Li cito solo per memoria di tutti: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; il tutto è superiore alla parte; la realtà è più importante dell’idea. Queste indicazioni, che ovviamente non vanno prese in modo rigido o schematico, possono essere meglio comprese con il termine “glocale” cioè affrontare i problemi locali in un’ottica sempre più grande. Significa che se siamo a Palermo, bisogna pensare almeno al contesto italiano o europeo. Avendo cura di ricordare che non basta affrontare i problemi immediati, ma bisogna anche avviare processi che servano per una risoluzione radicale dei problemi. In tal senso è importante coniugare insieme sussidiarietà e solidarietà per valorizzare tutti e non lasciare indietro nessuno.

 

Lei espresse all’inizio del mandato di Renzi un giudizio tutto sommato positivo, almeno per le attese che aveva acceso nel Paese. E’ ancora di questo parere?

Dico innanzitutto che al momento non mi pare ci sia un sostituto, perché anche per cambiare ci vuole uno all’altezza del compito che deve svolgere. Certo con il carattere un po’ duro che ha non si crea molti consensi, ma è l’unico che ha cambiato alcune cose. Quindi, prima di buttarlo a mare… Va detto che ha aperto molte attese, a partire da quella della rottamazione. Solo che combattere con una maggioranza che non è sua (le elezioni furono vinte dai bersaniani) non è facile; tuttavia ha ancora alcune cose che può dare all’Italia. Certo il paragone con Moro o De Gasperi non regge. Erano statisti di altra natura e statura in grado di ottenere il rispetto degli altri e degli avversari che ne riconoscevano le capacità e il valore. Lui non è proprio così, ma al momento non c’è di meglio.

 

La caduta della prima repubblica ci aveva promesso la fine della corruzione. Eppure puntualmente ci risiamo. C’è chi se la prende con i magistrati, chi con i poteri forti. Ma perché è così difficile amministrare nel piccolo come in grande con correttezza?    

E’ tutta questione di formazione. Noi in Italia abbiamo una cultura politica deteriore. Altre nazioni hanno nel sangue (pur con gli scandali che possono capitare) la cultura della buona amministrazione. Noi siamo sempre alla ricerca dell’amico che ci può aiutare o favorire. Si tratta, invece, di partire dal basso, dalla scuola per esempio; anche la Chiesa può aiutare nella formazione delle coscienze. Questo atteggiamento non riguarda solo la politica, ma il vivere quotidiano, i rapporti familiari, professionali, sociali, anche il modo in cui fare gli esami. Questo è il limite dell’Italia, che poi in democrazia si paga.

 

C’è chi dice che l’unica medicina sia la legge. Ma può una legge seppur ben fatta generare l’uomo nuovo, in grado di non soggiacere al ricatto della corruzione? 

La legge è uno strumento e come tale serve a chi lo ha in mano. Per fare un bravo medico non basta un buon bisturi. Se così fosse allora…. Anche il potere non è da demonizzare, perché senza potere non posso fare nulla. Se devo cambiare, devo avere il potere economico, politico, morale. Il problema è che il potere è uno strumento. Se io come politico cerco il potere per fare politica, ne ho bisogno. Se invece faccio politica per cercare il potere, si capovolge il cammino. Ed è quello che sta avvenendo. La legge non potrà mai sostituire l’uomo. Posso fare un esempio?

 

Prego.

In un’intervista che rilasciai a Walter Tobagi una settimana prima che lo uccidessero, dissi, con riferimento al mondo cattolico, che in Italia ci sono molte energie, ma mancano le strutture. Tra l’acqua e i canali, è più importante che ci sia la prima piuttosto che i secondi, perché i canali senz’acqua non servono a nulla, mentre l’acqua scorrendo tra i canali irriga dappertutto; e se poi comunque i canali si otturano l’acqua si fa strada e alla fine giunge a destinazione. Noi abbiamo dato più importanza ai canali, cioè le leggi, che all’acqua, cioè le idee, i giovani, eccetera. Poi le leggi ci sono e ci devono essere, ma è un errore dare il primato alle riforme strutturali. Pensare che una volta fatta la riforma della scuola, della sanità ecc. l’Italia andrà bene, non è vero, perché la forza principale è l’acqua.

 

Oltre al tema della corruzione oggi l’Italia, come l’Europa, deve fare i conti con la questione delle grandi migrazioni. I termini sono finalmente chiari, ma perché l’Europa non riesce a trovare unità neppure di fronte a questo dramma e continua a girare su se stessa?   

La mia persuasione è che siamo di fronte ad una crisi di valori; i valori fondativi dell’Europa non sono più al primo posto e questo vale in tante altre cose, in tante altre scelte e leggi approvate. La forza ideale che avevano i grandi fondatori dell’Europa — De Gasperi, Schuman, Adenauer — è finita. Si è partiti dal carbone e dall’acciaio, si è passati all’economia, ma soprattutto l’eccessivo allargamento l’ha snaturata. Per me il vero problema del mondo globalizzato è trovare un nuovo umanesimo. Quello che aveva fondato l’Europa era l’umanesimo cristiano. Ma di fronte alla secolarizzazione, al razionalismo, al positivismo è cambiata la cultura. Quindi l’umanesimo cristiano può essere una componente, ma non c’è ancora una sintesi. 

 

Ci spieghi. Può farci un esempio?

Sì, quello del Partito democratico che non è mai nato. Io ritengo che non esista un Partito democratico. Era bellissima l’idea che venne poi divulgata nel “Manifesto dei valori del Partito democratico” (2008), elaborato dal Pds e dai Popolari prima che si fondessero nel Pd. Ci lavorarono in molti, ricordo tra gli altri Scoppola, e c’erano concetti molto belli, a partire dalla politica come servizio. L’idea centrale era questa: superiamo, senza rivendicare, la nostra storia. Quindi il socialismo non doveva rinnegare la sua storia, ma andare oltre il socialismo. E lo stesso valeva per i popolari, che non dovevano rinnegare la tradizione democristiana, ma andare oltre. In quel manifesto c’erano i principali valori della nuova cultura politica. Per cui non era né socialista, né cattolico, né liberale, ma era il risultato di queste tre culture che hanno fatto tanto per l’Europa. 

 

Ma di questa vicenda si è persa pure la memoria. Perché non andò avanti? 

La carta fu approvata ma non fu diffusa perché incombevano le elezioni politiche di aprile. Ci sarebbe voluto del tempo per portare in giro questo manifesto, farlo conoscere e condividere alla gente e dar luogo al nuovo partito, cioè il Pd. Siccome non ci fu tempo, si adoperò il manuale Cencelli per fare le liste e ci si presentò agli elettori. I liberali alla fine si sfilarono e rimasero Pds e Ppi, ma uniti e diversi. Fu la somma di due partiti, ma non un nuovo soggetto. Le due anime rimasero appaiate e ancora adesso si vedono i risultati. Le due anime del Pd di adesso sono il risultato di quel processo mai concluso. 

 

E oggi cosa sta succedendo?

Prima le ideologie erano modelli di società: modello socialista, liberale, eccetera. I cattolici non potendo identificarsi in quelle hanno fatto la terza ideologia. Finita questa fase il problema è oggi come realizzare la casa comune. L’unità nella pluralità. La vera scommessa del terzo millennio è imparare a vivere uniti rispettando le diversità di ciascuno: bianchi e neri, ricchi e poveri, gente del sud e del nord. Quando c’erano le ideologie, il problema era: vediamo quale modello vince. Oggi non c’è un modello che vince, ma una casa comune da costruire. Partiti e sindacati sono ancora attaccati a modelli passati, frutto delle ideologie di quel tempo. Ci sono al loro interno ancora tante persone che ci credono e si impegnano, ma non si rendono conto che non esistono più i vecchi modelli. Per cui anche l’allargamento che Renzi tenta di fare è una necessità. In tal senso non esiste il modello Renzi, ma la necessità di rispondere alla domanda: come facciamo a risolvere i problemi di tutti in un’ottica globale?

 

Questo non assomiglia un po’ all’esperienza della primavera palermitana?

Sì, certo. Almeno quella dell’inizio. Quando partimmo creammo un movimento in cui c’erano dentro tutti. Avevamo un consenso del 90 per cento. Si unirono tutti quelli che volevano la legalità a Palermo. 

 

E poi?

Ruppi con Orlando quando lui decise, insieme a padre Pintacuda, di trasformare il movimento in partito. Io risposi che non c’era bisogno di un partito in più ma di un movimento per la legalità, dove ciascuno poteva rimanere con la propria ideologia, ma battersi insieme per l’obiettivo comune. Poi nata La Rete il consenso è stato scarso e tutto è finito.

 

Ma questo, in qualche modo, non era il modello della Dc?

Certamente quella degli inizi, quella di De Gasperi. Poi c’è stata la corruzione e il partito è finito. Ma all’inizio c’era la capacità di guardare lontano e la Dc è riuscita, insieme agli altri, a ricostruire l’Italia. Ed e per questo che è sopravvissuta per cinquant’anni. Non dimentichiamo poi che sono venuti meno gli ideali.

 

Anche la situazione a livello internazionale non va meglio. Non è che oltre ad una società senza padri abbiamo costruito un mondo senza leader in grado di voler perseguire veramente la pace?

Prevalgono gli egoismi territoriali che hanno fatto da sempre la storia del mondo. Viviamo in una società senza padri e in un mondo senza fratelli; se non abbiamo un unico padre, non siamo fratelli e quindi diventiamo nemici e il più forte vince. C’è bisogno di ritornare il Vangelo nel senso di ritrovare una paternità comune. Qui la religione ha un grande compito. Purtroppo ci sono stati lunghi secoli di una Chiesa trasformata in Stato che ci hanno rovinati. Oggi la Chiesa è uno Stato tra gli Stati.

 

Vi è una altro tema tra quelli prima affrontati che riguarda la Chiesa: quello della corruzione e della ricchezza, contro cui papa Francesco ha ingaggiato una battaglia chiara ma anche faticosa. Perché è così difficile anche a partire dalle gerarchie ecclesiastiche, accettare di vivere in una contesto più sobrio e consono al proprio status?  

E’ il residuo della “cristianità”, quella cioè che ha fatto nascere Costantino, che ha dato luogo ad una fede diventata ideologia, fino al punto che la Chiesa si è dotata di un esercito. Perché ad esempio, al di là del fatto folklorico, devono esistere le Guardie Svizzere, oppure perché devono esistere i Nunzi del Vaticano sparsi per il mondo per annunciare il Vangelo? La Chiesa è divenuta uno Stato. Certo, capisco che questo può servire a fare del bene, ma stride… con tutto il resto. Siccome la Chiesa è uno Stato allora ci vuole la curia, che equivale ai ministeri. A tal proposito amo sempre ricordare la frase di San Bernardo che dice: “il Papa non è il successore di un imperatore, ma di un pescatore”.

 

A proposito di scandali: il Vatileaks 2 ha costretto la Chiesa, meglio il Vaticano, ad intervenire con metodi tipici della società civile: prigionia, processo, condanna e forse anche una pena da erogare. Ritiene giusto questo metodo? Lei ha scritto a tal proposito che guardare l’uomo e i suoi problemi con gli occhi di Dio non è lo stesso che guardarli con quelli del diritto canonico.

Ancora, la ragione è che la Chiesa è uno Stato: lo Stato Città del Vaticano. Praticamente è rimasta ferma a 200 anni fa. Ricordo ancora quando condannarono a tre anni di galera Paolo Gabriele per il Vatileaks 1. Il presidente del Tribunale, con i paludamenti del caso, iniziò a leggere la sentenza dicendo: “In nome di Sua Santità Benedetto XVI gloriosamente regnante, il tribunale, invocata la Santissima Trinità, ha pronunciato la seguente sentenza…”. Ho sentito una pugnalata, quando ho ascoltato che in nome di Dio Misericordioso si condannava un uomo. Probabilmente quella formula era una formula di Pio IX, l’ultimo Papa re, non era stata più usata da 200 anni… Un sussulto della vecchia “cristianità”. Perciò si comprendono certe reazioni della cultura laica… Ci voleva proprio papa Francesco per avere il coraggio e la forza di tornare al Vangelo.

 

In tal senso come giudica il modo in cui si sta affrontando il problema della pedofilia?

Siamo di fronte a forme di decadimento morale che purtroppo non sono mai mancate nella Chiesa. Una volta c’era la piaga del concubinato; oggi sono cambiati i tempi, ma certe piaghe morali rimangono. Queste non mi stupiscono, ma mi addolorano. Del resto, il primo a rinnegare Gesù è stato san Pietro, la “roccia” su cui è fondata la Chiesa. Tuttavia, anche nei momenti più bui della sua fragilità, nella Chiesa non sono mai mancati i profeti e i santi, perché Gesù è il capo del Corpo. Fino alla fine del tempi, la Chiesa non sarà mai di tutti puri, ma sarà sempre composta da santi e da peccatori. E’ questa una prova della sua divinità. Come un giorno ebbi a dire a un prete che aveva attaccato pubblicamente la Chiesa disprezzandola: se in duemila anni non sono riusciti ad affondare la barca di Pietro né i papi né i vescovi, lei si può risparmiare la fatica!

 

Da ultimo, l’esortazione apostolica post-sinodale “Amoris laetitia”. Lei è sempre stato un grade e convinto sostenitore del confronto e dell’ascolto, innanzitutto dentro la Chiesa. Come giudica il metodo che è stato utilizzato?  

Certamente siamo di fronte ad un grande rinnovamento, quello che si chiama metodo sinodale, che il Papa ha riproposto anche al Convegno della Chiesa italiana di Firenze. Tutto ciò prima non era possibile. Io ci ho sempre creduto anche quando pur proponendolo, nei fatti veniva rifiutato. Ho provato a raccontare in prima persona questo impegno nell’ultima recente edizione del mio libro Introduzione alla Dottrina Sociale della Chiesa. Ho provato a ricostruire da questa angolazione gli ultimi 50 anni di vita ecclesiale italiana. Ne emerge lo spaccato di una Chiesa sostanzialmente immobile sul versante della riforma interna. Abbiamo avuto grandi papi, non c’è dubbio, ma su questo tema siamo fermi. Adesso Francesco ha messo in moto un processo. Vedremo dove ci porterà.





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