ELEZIONI 2016/ La Caporetto di Renzi

- Gianluigi Da Rold

Il panorama che esce dal voto è quello di una vastaarticolazione di lacerazioni politiche, di malcontento e di sconfitti. Con Torino simbolo della sconfitta renziana. GIANLUIGI DA ROLD

dimaio_grillo_M5SR439 Luigi Di Maio e Beppe Grillo (Infophoto)

La nota del Partito democratico, diramata verso mezzanotte, che ammette la “netta sconfitta” nei ballottaggi, è solo la conferma oggettiva di una tendenza che si percepiva da diverse settimane. Il conforto del Pd sulla “forte vittoria” a Milano (un testa a testa che si chiude con nemmeno due punti di differenza di vantaggio) e a Bologna (dove in genere si era abituati a vincere con ben altre percentuali) fanno comprendere che la situazione politica italiana è in piena evoluzione e anche il contesto nazionale, sebbene il voto fosse solo amministrativo, è in completo movimento, con possibilità di mutazione ulteriore e suscettibile di altri sicuri cambiamenti.

Stando ai risultati, Roma viene completamente travolta dall’ondata del M5s, dove la candidata grillina, Virginia Raggi, sfiora quasi il 70 per cento contro la scarsissima raccolta di suffragi presi da Roberto Giachetti, quasi una vittima sacrificale dopo gli scandali di mafia capitale e “l’intermezzo para-comico e grottesco” del sindaco Ignazio Marino.

Ma se a Roma si possono trovare le più fantasiose giustificazioni per una sconfitta (non di queste dimensioni), c’è la débâcle di Torino che lascia esterrefatti e fa comprendere come sia mutata la situazione politica italiana.

Il sindaco Piero Fassino, un leader storico del comunismo e post-comunismo italiano, ha perso contro una giovane e sconosciuta (fino a pochi giorni fa) signora borghese, Chiara Appendino, che si candidava nel segno “dell’antipolitica”, del “populismo”, “dell’anti-sistema”, come si è detto in questi anni più volte, e forse si poteva solo interpretare come la portavoce di una protesta nazionale in una delle città più importanti d’Italia.

La Torino degli Agnelli e della Fiat, la Torino storica del movimento operaio, la città più immobile e strutturata d’Italia, quella che aveva quasi una dépendance al Parlamento italiano quando, spesso, si parlava di “partito torinese”, è come saltata per aria. Rompendo gli argini di una tradizione pluridecennale, pur migliorando dopo l’esperienza riuscita delle Olimpiadi invernali, dopo aver patito il triste tramonto della Fiat, Torino è finita nelle mani dei pentastellati, con una parabola storica che va dalle fulminanti ironie dell’Avvocato alle battute piuttosto grevi di Beppe Grillo.

Se si voleva comprendere la valenza nazionale di queste amministrative, nessun campione meglio di Torino poteva rappresentarlo. L’aveva capito benissimo Piero Fassino, quando non è passato al primo turno quindici giorni fa. Personaggio che mastica politica come pochi, Fassino non solo aveva avvertito gli scricchiolii della sinistra, ma il senso complessivo del voto, che non dipendeva da una realtà cittadina, ma da un malessere sociale ampio, da una crisi che ancora “morde” e che investe tutto il Paese, nonostante le parole sempre ottimistiche e confortanti di Matteo Renzi.

Si possono trarre indicazioni da queste valutazioni fatte a caldo. Innanzitutto, rispetto alle promesse di “rottamazione” e di “ripartenza”, il governo di Matteo Renzi è ormai in panne e respira aria di minoranza nel Paese. Si può vedere quanto reggerà e questo dipende soprattutto dall’andamento del referendum di ottobre sulle riforme costituzionali.

Ma l’ammucchiata della dissidenza, non c’è dubbio, si sta rafforzando nel Paese e bisogna vedere quanto peserà in Parlamento. Poi c’è un problema interno al Partito democratico, che si aprirà con “ampi ragionamenti e analisi” il 25 giugno. Qui sarà la minoranza ad alzare il prezzo e occorrerà vedere se di fronte a questo risultato, Renzi manterrà la promessa di usare sempre il “lanciafiamme”, metaforicamente s’intende. In tutti i casi, l’aria di rissa e di accuse reciproche si respira ampiamente.

La linea difensiva di Renzi, in questo momento, può essere concentrata non tanto sulla tenuta di Bologna, quanto sull’affermazione di Milano che, seppure di misura, ha un significato particolare: per il ruolo che Milano ha nel Paese, per la tenuta di Giuseppe Sala di fronte alle varie opposizioni, perché Sala è stata la prima scelta di Renzi.

Ma la vittoria di misura di Milano va considerata anche sulla scia del successo dell’Expo, sulla mancanza della protesta organizzata e forte del M5s, sul fatto che ormai la concorrenza del centrodestra è logorata.

Il tripolarismo italiano ha soppiantato in questi anni il vecchio bipolarismo che doveva essere una delle opzioni della mitica seconda repubblica. Il panorama principale, che esce dal voto al momento, è quello di una vasta articolazione: con un centrodestra claudicante; una Lega che spesso straparla, non sfonda e arriva a perdere persino Varese; un centrosinistra in difficoltà e un “renzismo”, ultimo prodotto di questo centrosinistra, che pare al termine di un ciclo. L’unico vincitore reale, che spazza via tutti dal confuso tavolo della politica italiana è la protesta messa in piedi dal “comico” e ispirata dai cultori anti-casta. Adesso, in piena crisi, è arrivato il momento delle scelte finali e della grande confusione. Un autentico guazzabuglio, che possono mettersi a contemplare il de Magistris di Napoli, i “pentastellati”, i nuovi piccoli ras locali che vivono alla periferia di quello che pensavano fosse un impero. Si pensi che a Benevento ha vinto addirittura il sempre “giovane” Clemente Mastella.





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