Ieri, nella sua prima intervista da Papa, Leone XIV ha rivolto un appello per la pace: “mettiamoci insieme a cercare soluzioni per la guerra”
In un tempo segnato da conflitti multipli e parole gridate, colpisce il tono sobrio e pacato con cui Papa Leone XIV ha scelto di presentarsi al mondo. La sua prima intervista, trasmessa dal Tg1, non ha avuto nulla di eclatante. Eppure, proprio nella semplicità del suo linguaggio si avverte qualcosa di profondo. Quando dice “mettiamoci insieme a cercare soluzioni per la guerra”, non chiede di schierarsi, non invita a prendere posizione. Propone piuttosto di stare, tutti, dentro alla realtà. Di assumerla. Di condividerne il peso.
Papa Leone XIV – al secolo Robert Francis Prevost – è stato eletto l’8 maggio, e ha scelto un nome che richiama la tradizione della Chiesa sociale e profetica, quella di Leone XIII, pontefice dell’enciclica Rerum Novarum. Ma il suo stile, fin dai primi passi, appare distinto: non teorico, non programmatico. Piuttosto legato all’esperienza. Alla concretezza di chi ha abitato la Chiesa tra la gente, nelle periferie del mondo.
Nella sua breve conversazione televisiva ha nominato l’angoscia di chi vive oggi sotto le bombe. Ha parlato delle guerre come di qualcosa che lo riguarda personalmente: “penso giorno e notte a quanti innocenti stanno morendo”. È una frase semplice, ma non generica. Dietro, si intuisce una coscienza vigile, attenta al dolore e poco incline alla distrazione. Non c’è bisogno di un elenco di tragedie per intuire che Leone XIV conosce la geografia della sofferenza umana. E non si accontenta di guardarla da lontano.
La visita alla sede di Santa Maria di Galeria, cuore delle trasmissioni vaticane, è stata l’occasione per ricordare che ogni voce, oggi, corre sul filo di parole e immagini che costruiscono o distruggono. Il Papa ha parlato della comunicazione come di un dono e di una responsabilità: non per veicolare idee astratte, ma per favorire legami, per avvicinare ciò che appare lontano, per ridare all’umano una possibilità di riconoscersi.
In questo senso, la proposta di “mettersi insieme” non è uno slogan. È un atteggiamento. Non si tratta solo di trattative o mediazioni politiche: si tratta di riscoprire il volto dell’altro, di non ridurre nessuno a funzione, nemico o simbolo.
È un invito che ci riguarda tutti, non solo chi guida le nazioni. In ogni casa, in ogni gruppo umano, in ogni relazione può accadere qualcosa che assomiglia alla guerra: la rottura, l’incomprensione, l’odio. E allora cercare soluzioni non è solo un compito per i grandi: è il lavoro quotidiano del vivere.
Il Papa non ha parlato da stratega, né da analista. Ha parlato da credente. E ha rivolto il suo sguardo al mondo come lo si guarda quando ci si sente responsabili. Non per dovere, ma per vocazione.
In questo suo primo gesto pubblico non c’è ancora un’agenda, ma c’è già uno stile: abitare il tempo con fiducia, senza negare la fatica e senza cedere alla rassegnazione.
Molti, forse, si aspettavano da lui un discorso più definito, un orientamento preciso, un gesto forte. Ma c’è un altro modo di esserci, forse più sottile ma altrettanto decisivo: restare fedeli al dolore, stare in ascolto, tenere insieme le cose. È quello che Leone XIV sembra voler fare: non guidare da fuori, ma camminare con. Far parte di un popolo, non semplicemente indicarne la rotta.
Nel mondo di oggi non è poco. Forse è proprio quello che manca. E che più desideriamo.
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