STORIA/ Vaticano II, ecco le 3 parole che spiegano il Concilio

- Danilo Zardin

L’11 ottobre 1962 si aprivano i lavori del Concilio Vaticano II, indetto da Giovanni XXIII. Uno dei capitoli più malcompresi della storia della Chiesa. DANILO ZARDIN

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La mattina dell’11 ottobre 1962 si aprivano i lavori del Concilio Vaticano II: un fatto che può apparire oggi persino remoto, misurato sui tempi brevi della cronaca quotidiana, ma che in realtà costituisce uno degli eventi centrali della storia più recente, che ha plasmato il mondo di cui siamo parte. Per questo l’avvenimento del Concilio ci riguarda molto da vicino. Farne memoria, valutare l’eredità che ha lasciato, vuol dire continuare a interrogarsi sull’identità di ciò che siamo nel nostro presente e sottoporci a una sempre utile verifica.

In cosa consiste, andando alla radice del problema, il rilievo che dobbiamo attribuire al Vaticano II? In primo luogo, il Concilio è stato l’occasione di una decisiva presa di coscienza, un passaggio cruciale di crescita nel cammino della Chiesa del nostro tempo. Si potrà dire che si è trattato di una illuminazione maturata dall’alto e solo con fatica disseminata, più o meno fedelmente “metabolizzata”, nel corpo della cristianità dispersa in ogni angolo del pianeta. Oggettivamente, il vento nuovo del Concilio ha trascinato con sé, almeno all’inizio, gran parte dell’élite culturale e delle istituzioni di governo; si è distribuito capillarmente soprattutto ai piani alti dell’edificio, e qui ha raccolto le risorse necessarie per rimodellare, passo dopo passo, le forme del culto liturgico dei fedeli, la loro mentalità e il loro linguaggio religioso, il loro stile di presenza nel contesto sociale, il contenuto del loro dialogo con le forze che governano la vita condivisa dai cristiani con gli altri uomini. 

Resta il dato di fondo che la più grande assemblea ecclesiastica conosciuta dalla storia bimillenaria della cristianità, inaugurata da Giovanni XXIII e portata a termine da Paolo VI tre anni più tardi, nel 1965, rappresenta un momento indiscutibile di svolta nel ripensamento di ciò che significhi, oggi, essere “cattolici”, in rapporto al compito di portare una risposta positiva, fondata su una speranza certa e lieta, alle attese che fermentano nel cuore dell’umanità intera. Il fatto che per arrivare a questo esito sia stato necessario vincere obiezioni, dialettiche interne e resistenze che si sarebbero presto rivelate, nelle loro punte estreme, persino laceranti non annulla l’entità del risultato.

Vale la pena cominciare a gettare uno sguardo d’insieme sul cambiamento profondo di cui il Concilio è stato il vertice clamoroso. La prima cosa da sottolineare è che il Concilio non è fiorito miracolosamente nel deserto. Va visto piuttosto come lo sbocco di un lungo, tortuoso, spesso oscuro e contraddittorio movimento di sviluppo che aveva gettato le sue radici nel tessuto ramificato della Chiesa quanto meno a partire dalla fine dell’Ottocento, dopo l’uscita dall’Antico Regime dell’Occidente cristianizzato e l’avvio della fioritura di nuove forme di presenza dei cristiani nel grembo della società avviata a rendersi sempre più moderna. Il Concilio non si è fatto da sé. Vi si sono proiettate le crisi, le sconfitte e le dure sofferenze patite dalla coscienza religiosa alle prese con un mondo divenuto spesso indifferente e ostile, man mano si staccava dalla matrice che lo aveva generato e guadagnava la sua orgogliosa autonomia. 

Ma questo cammino irto di ostacoli aveva anche prodotto un nuovo fiume di martirio e di santità. Aveva risvegliato la cultura e le premure educative della Chiesa, “madre e maestra” dei popoli. Aveva spinto verso una immersione più decisa e carica di carità dentro i drammi di un progresso che rivelava di essere tutt’altro che equiparabile alle “magnifiche sorti” di una felicità disseminata fraternamente nel consorzio sociale mondiale. Il pungolo di una fede desiderosa di ritrovare la sua luce più autentica premeva da tempo con la sua scommessa audace: sollecitava ad “abbattere i bastioni” innalzati a difesa di una cristianità di antiche tradizioni, ma che si sentiva ormai da tante parti chiamata a rompere i gusci che la tenevano imprigionata, per aprirsi più cordialmente, in senso più coraggiosamente missionario, verso un mondo che non poteva essere abbandonato al proprio destino, dentro il quale si doveva dare vita a una nuova forma di incarnazione della fede ereditata dai Padri.

“Abbattere i bastioni” era il titolo di un’opera per molti versi profetica del grande teologo Hans Urs von Balthasar, apparsa nel 1952, che indicava la strada possibile di un “recupero” fondato sulla conversione e sul ritorno alla fedeltà di una simbiosi con il cuore del fatto cristiano di ogni tempo. Già prima, altri teologi e maestri del pensiero cristiano, diversi influenti filosofi e uomini di lettere, per esempio in Francia e in Germania, tanti educatori, tanti fondatori di ordini, di nuove espressioni di vita comunitaria, di associazioni e movimenti, avevano dato il loro contributo per sperimentare modi originali secondo cui promuovere una vita cristiana rianimata dalle sue basi, riconciliata con il mistero della liturgia, rimessa in collegamento con le sue fonti e il suo contenuto essenziale. Tutti questi fermenti dispersi avevano dissodato il terreno. Avevano preparato un clima che incitava a osare di più, a rimettere in discussione le posizioni di rendita e le antiche, ma ormai screditate sicurezze per lanciarsi lungo sentieri inediti, con tutti i rischi e le incertezze spigolose che un percorso inesplorato poteva comportare. Arrivati agli anni Sessanta, il Concilio è stato un tentativo per andare oltre la recriminazione, imboccando la via di un rinnovamento destinato a cambiare in profondità il volto della Chiesa, ricca della sua lunga storia e della sua dottrina, ma chiamata in un certo senso a ridefinire se stessa.

Le scelte da adottare non furono però l’oggetto di una piatta armonia di vedute. Sia durante il Concilio, sia, ancora di più, nella fase successiva della sua applicazione, cioè della traduzione in termini normativi estesi alla globalità dell’organismo cristiano, si svilupparono discussioni e controversie su ciò che doveva comportare il rilancio della presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo. Emerse il largo pluralismo di opzioni teologiche e di sensibilità culturali tutt’altro che allineate, anche ai vertici gerarchici più elevati della cattolicità legata a Roma. I contrasti erano stati in parte ricomposti attraverso il lavoro collegiale dei dibattiti interni al Concilio. Fu possibile in ogni caso giungere a mediazioni in cui si riconobbe la maggioranza delle rappresentanze delle Chiese locali insieme ai portavoce della cerchia papale. Una serie notevole di raffinati testi autorevoli furono alla fine approvati e dettarono la linea maestra del Magistero nei decenni seguenti.

 

Anche se sulla interpretazione delle loro implicazioni e sul loro reale influsso ci sono ancora oggi forti divergenze intrecciate al giudizio che, voltandoci indietro, possiamo formulare a riguardo del mezzo secolo di storia segnato dal post-Concilio (ma forse più tra gli specialisti che si accapigliano con le loro schermaglie politico-culturali, che non nel coro molto più esteso del popolo cristiano guidato dai suoi pastori), una sintesi sul lascito che il Vaticano II ci ha trasmesso potrebbe essere ricondotta a tre parole-chiave da usare come slogan riassuntivo. Non le invento io, ma le riprendo dal racconto molto documentato e ben impostato che p. John W. O’Malley ha dedicato a Che cosa è successo nel Vaticano II (Vita e Pensiero, 2010): uno dei libri più recenti che, meglio di altri oggi disponibili, si propone di aiutare a fare memoria del significato racchiuso nell’evento che stiamo ora ricordando insieme.

La prima parola, per altro più sfuggente ed equivocata, è “aggiornamento”, che in effetti ha corso il rischio di essere abbassata, nel suo uso comune, all’idea di un adattamento del contenuto cristiano alle esigenze imposte dalla modernità così come essa si presenta, saltando il dovere di un giudizio sui vizi che questa include e indebolendo, così, la specificità di una proposta che deve essere irriducibile alle mode, chiamata non a inseguire le sirene del conformismo, in nome di disinvolte cosmesi di facciata, ma ad immettere nella sostanza della vita il lievito di una diversità capace di trasfigurarla dall’interno.

La seconda parola-chiave è “sviluppo”. Qui si scende più in profondità nel dinamismo di una esperienza cristiana veramente aperta al mondo. Racchiude l’intuizione che la continuità della tradizione della fede è un processo cumulativo di crescita, pari a quello di ogni vero organismo. Non basta rassegnarsi alla ripetizione del già dato. L’eredità ricevuta in dono o la si arricchisce, mettendola a frutto e progredendo, o la si lascia isterilire chiudendosi nell’immobilismo del sospetto, ripiegando nella fuga paurosa davanti all’emergere della novità.

La terza e più decisiva parola che ricapitola lo spirito di fondo del rinnovamento promosso dal Concilio è “ritorno alle fonti”. Le sfide del presente non sono dimenticate o scavalcate. Ma per resistere a un vuoto e rianimare un terreno arido occorre una ricchezza di vita nuova, ci vuole il soccorso di una fresca acqua di sorgente. La linfa non può essere attinta che risalendo al nucleo originario ed essenziale dell’impatto della fede cristiana nel mondo. È nella forza trascinante di questo patrimonio in cui si è tradotta l’esplosione della vita divino-umana di Cristo redentore, là dove viene ricucito il legame che tiene agganciati a Colui che è la fonte e il capo del corpo organico della comunione cristiana, che si nasconde il nutrimento fecondo di una coscienza solida e matura. 

Per continuare a offrirsi come provocazione incisiva dentro la realtà del mondo, la fede dell’uomo moderno deve solo avere la tenacia di recuperare dal fondo di sé il cibo necessario per non rimanere eternamente bambina.

 





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