Nei quattro anni di Joe Biden alla Casa Bianca il prodotto lordo pro capite dell’Italia è cresciuto in media attorno al 3,5%, più degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e degli altri Paesi del G7. Lo mostra un grafico elaborato dal Financial Times su dati dell’Ocse. Non solo; gli Stati Uniti sono diventati il secondo mercato di sbocco delle merci italiane (67 miliardi di euro) dopo la Germania (74 miliardi di euro). Non è merito di Biden, ma dell’industria tricolore, tuttavia ciò è stato possibile grazie al fatto che il mercato mondiale e quello americano sono rimasti aperti, anche se lo stesso Biden ha favorito l’industria a stelle e strisce con i suoi provvedimenti: dagli incentivi alla transizione energetica alla legge sui chip, i microprocessori.
Che cosa accadrà con Donald Trump se darà davvero corso alla minaccia di aumentare le tariffe non solo verso la Cina, il Canada, il Messico e l’Unione Europea? “Mi piace Giorgia Meloni, sulle tariffe alle importazioni italiane vedremo”, ha detto il tycoon Presidente. Per ora è tutto un vedremo. Gli ordini esecutivi firmati fino a questo momento riguardano altro: gli immigrati, soprattutto, poi il ritiro dall’accordo di Parigi sul clima e dall’Organizzazione mondiale della sanità e una serie di misure che hanno soprattutto un connotato ideologico, per accontentare il popolo “Maga” che lo ha fatto vincere.
Secondo Scott Bessent, che dovrebbe diventare il segretario al Tesoro, quindi il primo responsabile della politica economica americana, le tariffe sono materia di scambio nella grande trattativa con la Cina e i Paesi che mostrano un forte attivo nella bilancia commerciale nei confronti degli Usa (dunque in teoria anche l’Italia che ha un surplus di 43 miliardi di euro, il terzo tra gli europei dopo Germania e Irlanda). Ma Trump ha mostrato ancora una volta il volto dell’arme.
A Davos si sono confrontati a distanza un’elegante signora nella quale si rispecchia quel che resta della borghesia liberale europea e un torreggiante miliardario americano che ha vinto mettendo insieme la plutocrazia tecnologica con gli operai e i contadini del Midwest che si sentono minacciati proprio da Big Tech. Christine Lagarde e Donald Trump hanno dato l’impressione che i due grandi blocchi economico-politici, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, abbiano cominciato una competizione, anzi un vero e proprio conflitto, che segnerà i prossimi anni.
“Chiediamo rispetto dalle altre nazioni”, ha detto Trump accusando Biden di aver consentito che i concorrenti stranieri si siano avvantaggiati. “Ciò non accadrà più”. Tra i diktat presidenziali c’è quello rivolto all’Arabia Saudita affinché riduca il prezzo del petrolio e alle imprese estere di aumentare gli investimenti negli Stati Uniti pena pesanti sanzioni. L’Ue deve smetterla di colpire con tasse le Big Tech americane. E le Banche centrali di tutto il mondo debbono “tagliare immediatamente” i tassi d’interesse. Ciò vale anche (forse innanzitutto) per la stessa Federal Reserve.
“La minaccia di nuovi dazi non mi sorprende – ha detto Lagarde -, dobbiamo prepararci e sapere come rispondere”. In che modo? La presidente della Bce ha fatto riferimento al Rapporto Draghi, tuttavia per realizzarlo ci vuole non solo il consenso dei Paesi membri dell’Unione, ma uno stanziamento monstre (800 miliardi di euro l’anno) che non può essere coperto dallo scarno bilancio dell’Ue. Occorre andare sul mercato ed emettere titoli europei garantiti dalla stessa Bce. E su questo come sappiamo non c’è consenso.
Un’importante responsabilità ricade anche sulla Banca centrale europea, perché la risposta alla sfida americana richiede una politica monetaria adeguata che assicuri un finanziamento solido e consistente alla crescita, senza nessuna stretta monetaria. “Siamo stati i primi a tagliare i tassi e ora siamo la banca centrale con quelli più bassi al 3% – ha spiegato madame Lagarde – nei prossimi trimestri, il compito sarà semplice: saremo vigili ma fiduciosi”. La presidente lascia intendere che la Bce proseguirà nel suo cammino. L’Eurotower, ha spiegato, sta gradualmente portando il tasso d’interesse sui depositi verso un livello neutrale, compreso al momento tra l’1,75% e il 2,25%. La prima riunione del board di questo 2025, la prossima settimana, sarà un banco di prova.
Diversa è la situazione della Fed. Trump vuole che riduca il costo ufficiale del denaro, ma l’inflazione non si è ridotta abbastanza e Jay Powell ha raccomandato prudenza: finora ha fatto capire che manterrà stabili tra il 4,25% e il 4,50% i tassi di riferimento. Si allineerà al presidente che lo ha nominato nel 2018 o perderà la poltrona?
Al di là delle parole, lo stesso Trump è incerto e la sua coalizione è divisa tra la spinta dei Maga e la prudenza tattica dei conservatori tradizionali, i primi rappresentati da Stephen Miller, vicecapo dello staff alla Casa Bianca, responsabile della politica dell’Amministrazione, gli altri da Scott Bessent, designato come segretario al Tesoro. Noi italiani ed europei tifiamo per il realismo di Bessent, ma Miller è l’uomo che parla all’orecchio di Trump. Non resta che aspettare. Intanto prepariamoci tutti, a Francoforte, a Bruxelles e a Roma.
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