ILVA, ISAB, ITA & CO/ Le tante crisi che chiedono soluzioni (e soldi) al Governo

- Stefano Cingolani

Il Governo si prepara a varare la Legge di bilancio, ma deve anche affrontare delle crisi importanti che richiedono soluzioni e risorse dello Stato

Urso Meloni Lapresse1280 640x300 Adolfo Urso e Giorgia Meloni (Lapresse)

Il Governo si riunisce domani per varare una Legge di bilancio cauta o meglio realistica, con 21 miliardi di euro su 30 destinati ad aiuti contro il caro bollette (così è stato annunciato per il momento). Ma domani il Governo si troverà sul tavolo due patate altrettanto roventi: l’Ilva e l’Isab.

Il gruppo siderurgico sarà in sciopero per quattro ore, la raffineria siciliana rischia di chiudere tra dieci giorni. Le due crisi hanno ragioni diverse, però creano entrambe una forte tensione sociale soprattutto in Puglia (non solo a Taranto) e in Sicilia (non solo a Priolo), mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro e l’economia di due aree cruciali.

L’impatto politico è altrettanto forte: in Puglia scuote soprattutto la sinistra, in Sicilia il centrodestra. Ed entrambi gli schieramenti chiedono l’intervento dello Stato. Sia i sindacati, sia il presidente pugliese Michele Emiliano vogliono una nazionalizzazione dell’Ilva. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso è d’accordo ad accelerare il passaggio dello Stato dal 40% attuale al 60% prima di quanto concordato, tuttavia ciò non risolve il problema industriale. Ancor più complicata la situazione all’Isab, seconda raffineria in Italia e quarta in Europa, posseduta oggi dalla russa Lukoil e colpita di fatto dalle sanzioni. Se si aggiungono poi ITA Airways, la rete Tim e il Monte dei Paschi di Siena, ballano molti miliardi di euro che il Tesoro deve trovare, in aggiunta a quelli già versati. Per la compagnia aerea, per l’azienda di telecomunicazioni e per la banca si può prendere un po’ di tempo, per l’acciaieria e per la raffineria no.

L’Ilva doveva chiudere l’anno con una produzione 5,5 milioni di tonnellate di acciaio, invece arriverà forse a 3 milioni. Il boom della domanda grazie alla forte ripresa post-pandemia si è spento, e alla congiuntura interna e internazionale s’aggiungono i problemi produttivi dell’impianto di Taranto che deve compiere una grande riconversione ambientale ed è sotto sequestro giudiziario da ben dieci anni. Nel maggio scorso la Corte d’assise di Taranto ha respinto la richiesta di dissequestrare l’area a caldo perché “la salute è ancora in pericolo”. Secondo i sindacati, l’azienda è in crisi di liquidità e cerca di rifarsi tagliando innanzitutto gli appalti: a 145 ditte è stato intimato di uscire e ciò mette in pericolo ben duemila occupati. Il Governo ha convocato le parti, ma i vertici dell’azienda non si sono presentati. Urso pensa di utilizzare il miliardo già stanziato dal Decreto aiuti-bis e non ancora erogato, per anticipare il ribaltone societario previsto per il 2024 che porterebbe Invitalia a diventare il primo azionista superando ArcelorMittal. Progetto non facile da realizzare: l’azionista indiano si oppone e minaccia azioni penali e il miliardo destinato a un aumento di capitale verrebbe subito risucchiato dai debiti e dalle esigenze di liquidità.

Peggio ancora all’Isab. Il petrolio russo ancora sgorga almeno fino al primo dicembre, ma le banche hanno già chiuso i rubinetti per timore di cadere sotto la mannaia delle sanzioni. Il ministro Urso è intervenuto per offrire una garanzia pubblica attraverso la Sace, ma gli istituti di credito non sono soddisfatti. Due sono i nodi da sciogliere: il primo è da dove verrà il greggio che deve essere raffinato per rimpiazzare quello russo (l’ultima petroliera attraccherà tra una settimana), il secondo la proprietà dell’azienda. La Lukoil è diventata un ostacolo al futuro di un’impresa che il Governo ritiene strategica e è il fulcro di un vasto polo industriale (Air Liquide, Erg, Versalis, Sonatrach, i porti di Augusta e Siracusa). Secondo Il Sole 24 Ore, la Lukoil ha incaricato una banca d’affari americana (JP Morgan o Morgan Stanley) di cercare un acquirente. Una proposta venuta dal fondo americano Crossbridge sarebbe stata respinta dai russi. Il Governo sta preparando un provvedimento per autorizzare la cessione (visto che è scattato il golden power) purché vengano garantite produzione e occupazione.

Cresce il rischio che si chieda un intervento dello Stato direttamente o attraverso aziende pubbliche, magari chiamando in causa la Cassa depositi e prestiti la quale sta preparando gli assegni per acquistare dalla Tim l’intera rete. E che assegni. La Cassa valuta l’asset tra 15 e 16 miliardi di euro, il maggior azionista di Tim, il gruppo francese Vivendi, vuole molto di più. L’ultima parola resta al Governo perché anche qui c’è la golden power. Un incontro dovrebbe tenersi la prossima settimana e il consiglio della Tim dovrebbe riunirsi entro la fine del mese.

L’ultima parola spetta al Tesoro anche per ITA Airways. Il ministro Giorgetti ha aperto la data room e la Lufthansa è pronta ad entrare, non più Msc. La compagnia italo-svizzera di Gianluigi Aponte ha perso la pazienza e probabilmente punta su Italo messo in vendita per 4 miliardi di euro dal fondo Global Investment Partners. In ogni caso lo stato resterebbe azionista di ITA, è da vedere se in maggioranza come vorrebbe Fratelli d’Italia o in minoranza. Comunque, altri soldi pubblici dovranno essere versati nella compagnia aerea.

Un miliardo e 600 milioni è già entrato nelle casse del Montepaschi per l’aumento di capitale. Il Tesoro possiede il 64% delle azioni, seguito da Axa, la compagnia francese di assicurazioni, con l’8% e dal fondo americano Allspring Global con il 6,8%. La banca dovrebbe essere venduta, ma dopo il rifiuto di Unicredit non si sono fatti avanti ancora compratori. E il ritorno dello “Stato imprenditore” costa già molto caro.

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