BERLUSCONISMO/ La fine di un “sogno” nato nel ’68

- int. Massimo Borghesi

Le dimissioni annunciate ieri dopo mesi di agonia parlamentare aprono una riflessione culturale sul fenomeno del berlusconismo. L'intervista di Alessandro Banfi a MASSIMO BORGHESI

berlusconi_pupazzo2R400 Il pupazzo di Silvio Berlusconi

La lunga agonia che sta accompagnando le ultime fasi della legislatura del governo Berlusconi e il disagio di molti davanti alla situazione politica rendono necessaria una riflessione su Silvio Berlusconi e il berlusconismo. Tenendo presente che l’Italia è il Paese del “servo encomio e del codardo oltraggio” è il momento di approfondire culturalmente l’analisi di questo fenomeno. Magari prendendo le mosse dal finale della Mostra sulla Sussidiarietà presentata al Meeting di Rimini, che ricordava i giudizi di Pier Paolo Pasolini e Augusto Del Noce sulla società opulenta. Ne parliamo con Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale nell’Università di Perugia.

Professore, è finito un mondo?

La percezione che stavamo vivendo la fine di un’epoca era molto diffusa da tempo. Non si tratta solo di un fenomeno italiano. Il tramonto del berlusconismo è un momento di una crisi più ampia: quella che avvolge, in questo momento, l’orizzonte ideale di tutto il mondo occidentale. Noi stiamo assistendo, anche a seguito della grave debacle economico-finanziaria, alla crisi del modello di vita e di costume che, inaugurato negli anni Ottanta con Reagan e la signora Thatcher, ha contrassegnato la stagione del post-’89. Il crollo del comunismo, l’era della globalizzazione, hanno visto il trionfo di un capitalismo sicuro di sé, incurante di regole, teso unicamente alla massimizzazione dei profitti. Un capitalismo finanziario non più legato al binomio ricchezza-lavoro. Questa affermazione è stata supportata da una visione dell’uomo di tipo hobbesiano – “homo homini lupus” – che ha fatto carta straccia di tutti i valori di equità e di solidarietà. Un rampantismo coniugato con una visione ludica della vita per la quale ai “superuomini” tutto era concesso, dal lusso ai piaceri. Il libertinismo è l’altra faccia del business. Il risultato è una “mutazione antropologica” profonda, diagnosticata da Pasolini e  da Del Noce già a metà degli anni Settanta.

Tra la cultura berlusconiana e quella degli anni Settanta, post-sessantottina, c’è rottura assoluta o sussiste una qualche forma di continuità?

Questa è una domanda interessante. L’era berlusconiana, che non coincide solo con Berlusconi, ma racchiude, in qualche modo, anche i governi di centro-sinistra, per un aspetto si distingue nettamente dalla cultura sessantottina, sino a rappresentarne l’antitesi; per un altro, però, ne prolunga le conseguenze luddistiche che non trovano espressione solo nello sdoganamento dell’eros diventato fenomeno di massa, ma anche nel ruolo conferito all’immaginario: “l’immaginazione al potere”. È interessante, da questo punto di vista, la controversia che ha diviso, recentemente, Gianni Vattimo, teorico del post-moderno, dal suo antico discepolo Maurizio Ferraris, approdato ad un New Realism. L’accusa che Ferraris muove a Vattimo è quella per cui la posizione culturale post-moderna, per la quale “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ha trovato, di fatto, la sua realizzazione nel populismo mediatico che contrassegna l’epoca berlusconiana. Il postmodernismo, affermato da Vattimo come emancipazione da ogni autorità e verità, rappresenta la consacrazione del vuoto televisivo e dei suoi idoli. La cultura della sinistra erede del ’68, nell’analisi di Ferraris, non solo appare impotente di fronte alla nuova destra, ludica e tecnocratica, ma in qualche modo la legittima. La nuova destra è il punto di realizzazione della sinistra, spogliata delle sue richieste egualitariste e intellettuali.

Com’è possibile che il radicalismo post-’68 possa generare il suo opposto? Quel mondo contro cui stanno reagendo, in questo momento, gli indignados di mezzo mondo.

Per comprenderlo occorre tener presente più fattori. Il primo è che lo sdoganamento della cultura di destra è opera proprio del “68 pensiero”. Fino agli anni Sessanta il nome di Nietzsche, nell’ambiente intellettuale, era impronunciabile, associato, inevitabilmente, agli esiti nazionalsocialisti. Poi è avvenuta la grande “pulitura” a opera degli intellettuali francesi della Gauche: Deleuze, Foucault… La sinistra ha “purificato” Nietzsche, cioè l’autore della destra radicale europea, e lo ha associato a Marx nell’opera della contestazione di tutti i valori della società “cristiano-borghese”. Quando con l’89 il marxismo è crollato è rimasto Nietzsche divenuto, nel frattempo, autore di culto. Un Nietzsche depurato, certo, dalla “volontà di potenza” e presentato come il teorico della liberazione dionisiaca, il Nietzsche di Gianni Vattimo.
Insomma è stata la sinistra che ha legittimato la cultura di destra che avrebbe trionfato a partire dagli anni Ottanta. Lo ha denunciato ultimamente anche Marcello Veneziani lamentando, dal suo punto di vista, come la cultura progressista si fosse appropriata, nel corso degli ultimi decenni, degli autori della destra. L’esempio eclatante è qui quello della casa editrice Adelphi.

Quello che stai dicendo era stato previsto da Augusto Del Noce già negli anni Settanta.

Sì, Del Noce già nel 1963, nel suo saggio su “L’irreligione occidentale” contenuto ne Il problema dell’ateismo comprende come il cristianesimo e la sinistra si trovano di fronte un medesimo avversario: la società opulenta. Un marxismo privo di idealità non solo non era in grado di opporsi a questo avversario, ma ne diventava, in qualche modo, funzionale alla sua realizzazione. «Di fatto – scrive nel ’70 – la crisi della sinistra prende la forma del suo frangersi in due opposti sviluppi: quello dell’adattamento al reale che al limite porta alla subordinazione al “principio di realtà”, ma come realtà non più orientata ai valori, bensì come potenza pura; e quella dell’irrealismo puro, che tuttavia si fa oggettivamente complice del primo nella contestazione globale di tutti i valori». La sinistra oscilla, così, tra resa all’esistente – il mondo tecnocratico dei poteri forti – e l’utopia visionaria di chi mescola i sogni con la violenza. In ambedue i casi tradisce la sua impotenza di fronte alla nuova destra.

Questa impotenza indica anche un limite culturale, un’autocritica che, dopo il crollo del muro di Berlino, è mancata alla sinistra?

L’autocritica è mancata su due punti. La riflessione sulla violenza, innanzitutto. Come ha dimostrato il recente “sacco di Roma”, la mitologia della violenza è ancora potente. Essa ha radici antiche è non è stata debellata. Il secondo punto è il contributo che la sinistra degli anni Settanta, modulata da Gramsci, ha portato alla secolarizzazione del costume. Il risultato è stato una desertificazione dei valori popolari a cui non si è stato in grado di sostituire nulla. Un materialismo storico integrale si è trasformato in storicismo assoluto, cioè in relativismo e nichilismo. Il risultato è quello di cui parlavamo: la crisi della sinistra, la sua autodissoluzione genera il mondo della destra tecnocratica che arriva fino a noi. Per uscire da questa impasse la sinistra deve valorizzare un illuminismo aperto alla posizione religiosa, l’unica che può restituire senso alla parola cambiamento fondandola su alcuni valori irrinunciabili. Il documento pubblicato su L’Avvenire: “Nuova alleanza per l’emergenza antropologica”, sottoscritto da quattro intellettuali provenienti dal mondo comunista, Barcellona, Sorbi, Tronti, Vacca, va in questa direzione. In Europa una prospettiva analoga è quella offerta da Jürgen Habermas.

Se quello che dici è esatto perché il governo berlusconiano, al di là dei problemi privati del Premier, è stato colpito da una crisi così profonda?

Per quello che accennavamo all’inizio: un periodo storico si va concludendo senza che sia chiaro ciò che ne segue. La forza di Berlusconi, il suo sorriso rassicurante, il suo dinamismo e giovanilismo senza rughe, erano un punto di forza nell’orizzonte attivistico e sognante del benessere e del successo a portata di mano. Il vento di Berlusconi è stato il vento della globalizzazione e dell’occidentalismo post-’89. Quel mondo nel corso degli ultimi anni, a seguito dello shock finanziario e della bancarotta mondiale, sta cadendo a pezzi travolgendo miti e icone. La delusione di coloro che ci hanno creduto e sperato prende la forma del risentimento, soprattutto tra i giovani, tra coloro che si sentono respinti, ingiustamente, dalla grande torta promessa. Dopo anni fatti di veline e di calciatori, di sesso e di soldi, arriva la carestia. A quel punto l’oppio non funziona più e una società materialistica, la cui legge è la mercificazione dei rapporti,  scoppia, non è più governabile.

In questo contesto i cattolici, divisi dopo il ’94, tra centrodestra e centrosinistra, che contributo possono dare per superare la crisi attuale? A Todi si è discusso molto su questo tema lasciando affiorare ipotesi diverse, accomunate dall’idea che il berlusconismo sia alla fine.

I cattolici, dopo la fine dell’era democristiana, si sono divisi nello schieramento bipolare. Questo, di per sé, dopo la fine del comunismo che motivava l’unità politica dei cattolici, non è un dramma. Il dramma è stato, semmai, il venir meno di una riflessione storico-politica capace di rapportare l’idealità cristiana di fronte alla sfida del tempo nuovo. Stretto tra nuova destra e nuova sinistra l’impegno dei cattolici si è segmentato tra la difesa dei valori irrinunciabili, da un lato, e l’attenzione alle tematiche sociali, dall’altro. Una difesa che non eliminava la marginalità di una posizione che, a destra, ha dovuto sopportare l’occidentalismo teocon e guerriero, il disinteresse per le politiche familiari, il libertinismo mediatico e la disattenzione per le fasce più deboli. E, a sinistra, il modernismo scientista e il radicalismo di massa. La pluralità delle scelte, per non portare a una subalternità, richiede il consolidamento di posizioni culturali capaci di coniugare la difesa dei valori che presiedono alla tutela dell’essere personale con quelli che affermano la solidarietà sociale.
In questo modo, pur militando in schieramenti diversi, i cattolici si porrebbero al di là dell’antitesi classica tra destra e sinistra, un’antitesi che negli Usa divide i repubblicani dai democratici. Il Parlamento diverrebbe qui il vero punto d’incontro in cui i cattolici, divisi negli schieramenti, ritroverebbero però la loro unità. La riflessione di Todi mi pare positiva proprio perché, svoltasi tra anime e componenti del cattolicesimo tra loro diverse, era mossa, però, da questa esigenza: quella di superare gli steccati di un bipolarismo manicheo che ha ridotto la politica italiana a una palude piena di miasmi e di veleni. C’è bisogno di voltare pagina e di aria nuova. Su questo punto, dai vescovi all’uomo della strada, il sentire è comune.

(Alessandro Banfi)







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