SPY FINANZA/ La mossa per far pagare la prossima crisi a Trump

- Mauro Bottarelli

L'allarme lanciato dal Fmi sul livello del debito globale pare la prima mossa di un'operazione per far apparire Trump come responsabile della prossima crisi. MAURO BOTTARELLI

donald_trump_9_lapresse_2017 Donald Trump (LaPresse)

Ha avuto grande eco anche su giornali autorevoli e nei tg la messa in guardia del Fmi rispetto al livello di indebitamento raggiunto nel mondo, un combinato pubblico/privato ormai insostenibile e che obbligherà a scelte lacrime e sangue per evitare eventi realmente sistemici. Il fatto, poi, che il nostro Paese abbia avuto un richiamo particolarmente duro rispetto all’indebitamento ma anche – e forse soprattutto – alle politiche necessarie per favorire l’economia e combattere le diseguaglianze, dovrebbe farci capire che le consultazioni tenutesi fino a ieri a Palazzo Giustiniani sono state niente più che una farsa, una sciarada degna di un romanzo di Arthur Schnitzler: chi di dovere, nella fattispecie una delle tre componenti della troika, ha già deciso quali saranno le politiche prioritarie, su tutte l’aumento dell’avanzo primario e una bella patrimoniale. Complimenti a chi, magari, il 4 marzo ha anche fatto un bel po’ di coda per votare, utilissimo all’atto pratico. 

Ma se il nostro caso di specie è ormai paradigmatico, è la netta bocciatura della politica fiscale ed economica degli Stati Uniti a confermarmi indirettamente che – come pensavo – Donald Trump sia stato messo alla Casa Bianca solo per divenire esecutore materiale di un ennesimo crimine finanziario, ovvero addossare al taglio delle tasse e ora allo scontro commerciale sui dazi, responsabilità che invece sono tutte in capo alle Banche centrali, Fed in testa. Se infatti il Fmi si è svegliato come al solito quando i buoi sono già scappati dal recinto, pensare che scelte che di fatto non sono ancora divenute operative o che lo sono da poche settimane, possano essere responsabili del disastro sistemico che grava sul mercato azionario e obbligazionario è delirante. O supremo atto di malafede, ipotesi che ritengo più probabile. Stando al report del Fmi, il Fiscal Monitor Report sovrainteso dal direttore dell’Istituto di Washington, Vitor Gaspar, gli Usa sono infatti l’unico Paese fra le economie avanzate a non aver pianificato politiche di riduzione del carico debitorio, proprio a causa dell’aumento della spesa pubblica e del deficit contemplati nel budget 2019 dell’amministrazione Trump, come ci mostrano questi grafici. 

E se l’operazione pare chiara, ovvero cominciare la criminalizzazione delle politiche di Trump al fine di trasformarle nel capro espiatorio del botto finanziario in arrivo, mettendo così al riparo la Fed che – anzi – diverrà il salvatore della patria agli occhi dei cittadini in caso facesse ripartire “emergenzialmente” la stamperia del Qe, una conferma a quanto ho scritto nel mio articolo di ieri, rispettivamente alle previsioni irrealistiche sull’economia Usa delineate su Il Foglio dall’ex rettore della Bocconi, Tabellini, ecco che in questo video a confermare la mia tesi ci pensa non proprio un economista qualsiasi ma Doug Duncan, capo economista di Fannie Mae, di fatto una voce governativa. Ma attenzione, perché se l’America e le sue storture macro rappresentano ormai il proverbiale elefante nella stanza che non si riesce più a nascondere, ecco che sarebbe il caso – soprattutto nel nostro caso, visto che stiamo giocando con il futuro governo come se fossimo un Paese con ratio debito/Pil al 15% – di cominciare a dire la verità anche sullo stato di salute dell’economia dell’eurozona, tanto più che formalmente siamo ormai a pochi mesi dalla fine del Qe della Bce. 

Guardate questi due grafici: il primo ci mostra come, nonostante la retorica dell’Eurotower e la grancassa compiacente della stampa, la spinta propulsiva della ripresa nell’eurozona sta rallentando, trainata dalla Germania, formalmente la locomotiva. Il secondo, poi, conferma quanto vi accennavo ieri, ovvero l’aumento delle possibilità di un’entrata rapida in recessione proprio di Berlino. Oggi siamo al 32,4% di possibilità: sapete a quanto stava quella percentuale solo a marzo? Al 6,8! E a confermarlo non è qualche oscuro blog, bensì l’ultimo studio – appena pubblicato – dell’Institute for Macroeconomics and Business Cycle Research (Imk) della Hans Böckler Foundation. Tedeschi. Serissimi. 

 

Alla base di questa allarmante dinamica, tre fattori: calo notevole della produzione industriale, aumentata volatilità del mercato azionario e deterioramento negli indicatori di sentiment, Zew in testa. Il colpo di grazia? In questo caso non appare strumentale il richiamo alla politica di protezionismo lanciata da Donald Trump, la quale doveva avere sì formalmente come obiettivo la Cina, ma, stante l’impossibilità di Washington di vincere la guerra con chi detiene il suo debito, garantisce liquidità al sistema e materiale primario per la tecnologia più avanzata (terre rare), ecco che a pagare il prezzo più alto è il motore dell’export (e, proprio per questo, del surplus) europeo. Volete una rappresenta plastica di quanto l’eurozona sia potenzialmente nei guai, alla faccia del Qe e della ripresa sostenuta e sostenibile invocata da Mario Draghi? Pronti, ci pensa proprio un proxy tedesco, nella fattispecie quello rappresentato in questo grafico: lo spread fra il rendimento del bond biennale Usa e quello pari durata tedesco sia oggi a 300 punti base, il record di divaricazione storico. 

 

Ma attenzione, perché l’inganno è dietro l’angolo e mi riferisco all’uso parziale, quando non distorto, che si fa delle notizie che arrivano proprio dalla Germania per dipingere un quadro d’insieme favolistico dello stato di salute dell’economia europea. È infatti dell’altro giorno la notizia in base alla quale, dopo i metalmeccanici, anche i 2,3 milioni di lavoratori del pubblico impiego in Germania hanno ottenuto aumenti salariali del 7,5% complessivo in busta paga, da pagare in tre tappe su 30 mesi. Molto di più dell’inflazione tedesca, ferma all’1,5% a marzo. Un incremento che oltre alla crescita sostenuta dell’economia, riflette anche la bassa disoccupazione tedesca, scesa fino al 5,3%. L’Ig Metall, il potente sindacato dei metalmeccanici, solo a febbraio aveva ottenuto un aumento del 4,3%. 

Il sindacato della funzione pubblica ha definito l’accordo «il migliore risultato raggiunto da molti anni», ma anche il ministro degli interni, Horst Seehofer, si è detto molto soddisfatto, pur ricordando che dopo questi «sensibili aumenti salariali, ora ci aspettiamo miglioramenti nelle strutture corrispondenti». Insomma, come chiede anche la Bce, Berlino si è decisa a spingere sui consumi interni usando la leva salariale? Tanto più che l’intesa, chiusa nella notte tra martedì e mercoledì, prevede riconoscimenti anche per i neo assunti che, essendo tra i meno pagati, riceveranno un aumento del 10% in busta paga nell’arco di 30 mesi, oltre che per gli apprendisti, ai quali sarà riconosciuto un bonus di 100 euro e un giorno di ferie in più. Insomma, Bengodi. Non proprio, perché se si è arrivati a questa conclusione, occorre far notare come certe dinamiche salariali in Germania, in ossequio al surplus e alla riforma Hartz tanto decantata da certi ambienti del giuslavorismo italiano che di lavoro parlano molto, pur avendolo praticato molto poco, erano ferme da un decennio. 

In Germania, la percentuale di cittadini sotto la soglia ufficiale di povertà (917 euro pro-capite, al netto delle tasse pagate) è salita al 15,7% lo scorso anno dal 14,7% del 2005, questo nonostante il dato record dell’occupazione. Lo stesso governo, lo scorso anno ha dovuto ammettere attraverso uno studio del Dipartimento del lavoro e del welfare che il 40% dei lavoratori tedeschi non aveva visto aumenti sui salari reali netti da metà degli anni Novanta: capito come si ottengono i surplus! Tra il 2005 e il 2015, inoltre, il livello di povertà nella fascia di popolazione sopra i 64 anni è salito dall’11% al 15%: vedere anziani che frugano nelle campane del vetro in cerca di bottiglie, per cui in Germania viene pagata una cauzione, non è scena particolarmente rara, soprattutto nelle aree urbane e de-industrializzate della ex-Ddr. Inoltre, la bassa crescita salariale (soprattutto per i lavori a salario minimo) unita all’aumento degli affitti, i tedeschi non comprano casa, sta inoltre cambiando il volto di molte città: a Lipsia, ex-Ddr, l’affitto mensile era fino a poco tempo fa di 4,50 euro per metro quadrato, ora la media è di 7,50 euro. A stipendi invariati o quasi. Tra il 1995 e il 2015, la percentuale di lavoratori al minimo salariale nella ex Germania occidentale è salita dall’11,9% al 19,7%, mentre nell’ex-Ddr quel dato è rimasto drammaticamente invariato al 36,3%: ecco perché chi vede nell’exploit elettorale di Alternative fur Deutschland un allarme fascista non capisce nulla e non sa nulla della realtà tedesca. Non c’entrano né Hitler, né il razzismo, né la nostalgia del Reich (tanto più che, al limite, trattasi della cosiddetta Ostalgia, ovvero la nostalgia della Germania comunista di Honecker): è esasperazione. E, spesso e volentieri, povertà che sconfina nella miseria. E stiamo parlando della locomotiva d’Europa. 

Ed ecco perché degli aumenti salariali, prima ai metalmeccanici e poi al pubblico impiego: per evitare di precipitare ancora di più al prossimo passaggio elettorale, le europee dell’anno prossimo e per blandire l’Spd al fine di chiudere l’accordo per una nuova Grosse Koalition, il nuovo governo ha infatti stanziato parte dell’enorme surplus per spesa sociale, ma, al momento, si tratta di 4 miliardi di euro da dividere fra edilizia popolare, housing sociale, aumento delle pensioni minime e limitazione, attraverso sgravi, dei contratti a tempo determinato e part-time: il tutto, dopo un decennio di mini-jobs a valanga, frutto della Hartz, che hanno garantito casse statali piene. Ma molti stomaci vuoti, soprattutto nella ex Germania Est. Insomma, a ben guardare, l’erba del vicino è magari più verde – soprattutto di quella di molte aree del nostro Mezzogiorno -, ma non risplende proprio di riflessi di smeraldo. Almeno, non per tutti. Ma tranquilli, va tutto bene, la ripresa è sostenuta e sostenibile e il Qe è stato talmente un successo che può terminare. Credeteci pure, se volete. Poi, però, spegnete la Playstation e tornate sul pianeta terra, dove se per caso Mario Draghi dovesse davvero staccare la spina al finanziamento diretto ed extra-bancario degli acquisti di bond corporate, potremmo assistere alla prima ondata di default di massa nella storia dell’eurozona. 

Non va affatto tutto bene, fidatevi. E la cosa peggiore è che, per quanto bocconiani e giornalisti autorevoli vi dicano il contrario, debito pubblico e deficit sono gli ultimi dei problemi: sulla forca, in attesa del conoscere il proprio destino, c’è il sistema produttivo, le Pmi spina dorsale della nostra economia e punta di diamante del nostro export. Calcolando che, con le sue mosse, Donald Trump potrebbe garantire al dollaro altri mesi di debolezza strategica proprio sul fronte delle esportazioni (di fatto, un off-set dei ricaschi sulle condizioni peggiorative frutto della guerra sui dazi), spiegatemi voi come può la Bce bloccare il programma di acquisti, stante le condizioni macro dell’eurozona. Ma si sa, io sono un catastrofista. Fidatevi degli ottimisti, invece, visto che finora vi hanno trattato bene. E ci hanno visto lungo…





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