SPY FINANZA/ Quella profezia sul ritorno al Qe della Fed

- Mauro Bottarelli

Mentre la banca centrale cinese inietta nuova liquidità nel sistema, c'è chi è pronto a scommettere che anche la Fed riattiverà il Qe. MAURO BOTTARELLI

Powell_Jerome_Lapresse Jerome Powell, Presidente della Fed (Lapresse)

«Tutto il costo del capitale, a livello globale, dovrebbe andare in negativo e la ragione è molto semplice: è il grado di leverage e finanziarizzazione con cui dobbiamo fare i conti a livello mondiale. Quasi tutte le nazioni, a oggi, hanno bisogno di 3-4 dollari di debito per ogni dollaro incrementale di Pil che generano. E questa è una funzione della vera malattia, il collasso della produttività globale, guidato da spread sempre più esponenziali in quelle che possiamo chiamare “aziende zombie”, mantenute in vita unicamente dai tassi bassi a livelli record». Insomma, chi ha detto questo? Chi mi segue con attenzione, sa che sono interi trimestri che dico chiaramente come l’unica, reale finalità a livello globale sia quella di fare in modo che le Banche centrali, Fed in testa, trovino un casus belli sufficientemente emergenziale e credibile per tornare a stampare. 

E questo vale per tutto: scelte politiche, geopolitiche, economiche e finanziarie. Persino le paradossali capriole diplomatiche di Donald Trump, se lette in quest’ottica, hanno un senso. E il motivo è chiaro, palese: dopo dieci anni di tassi a zero e liquidità per tutti, ora che la Fed ha cominciato a rialzare i tassi (ancorché, rispetto ai tassi reali, sia di fatto tutt’oggi in modalità espansiva rispetto al record storico) e la Bce si appresta a chiudere il suo programma di Qe, la scarsità di dollari in circolazione (necessari a coprire i costi sempre crescenti dei debiti pubblici e privati contratti nel periodo delle vacche grasse, soprattutto nei mercati emergenti, come mostra il grafico) va a unirsi al venire meno del cosiddetto backstop sul mercato obbligazionario, ovvero la certezza di avere un acquirente di prima e ultima istanza sul mercato secondario. 

E quest’ultima dinamica, come saprete, va a impattare direttamente sul mercato equities, visto che il driver pressoché unico dei rialzi azionari sono proprio i buybacks corporate, finanziati a loro volta con i proventi delle emissioni di bond allegre e senza più limiti di rating. Bene, quelle parole con cui ho dato inizio all’articolo, sono di Viktor Shvets, capo della strategia per l’Asia presso Macquarie Commodities and Global Markets ed ex capo dell’ufficio studi di Credit Suisse, intervistato da Bloomberg TV (qui trovate l’intera intervista, per chi se la cava con l’inglese). E qual è il concetto cardine dell’intera intervista? Semplice, a detta di Shvets, entro 3-6 mesi al massimo la Fed cesserà il suo programma di riduzione dello stato patrimoniale. Insomma, primo passo verso un tapering al contrario, ovvero la fine (o, almeno, la sospensione) del programma di normalizzazione monetaria. 

Il perché è presto detto, ci pensano questi grafici: la scarsità di dollari in circolazione a livello globale, drenati appunto dal programma di contrazione della Banca centrale Usa, la quale ha già mandato in testacoda tutti i mercati azionari emergenti (Cina in testa) e rischia, andando avanti con quanto finora promesso da Jerome Powell, ora di far saltare il canarino nella miniera, ovvero il mercato obbligazionario ad alto rendimento. 

 

Tanto più che una dinamica nuova rischia di esacerbare la situazione, un qualcosa che rappresenta la vera guerra commerciale fra Usa e Cina, non quella dei dazi che appare, giorno dopo giorno, unicamente mediatica. Guardate questi due grafici, sono gli unici veramente necessari non solo a capire la situazione attuale del mercato, ma anche le dinamiche geopolitiche reali. Ovvero, chi comanda davvero al mondo. Il primo ci dice qualcosa che, in maniera indiretta, rende ancora più inderogabile e ineluttabile un cambio di marcia della Fed: lo yuan offshore è oggi ai minimi da 12 mesi, giù di oltre il 9% dai massimi di marzo e in caduta libera a un tasso annuale che ruota attorno al 30%! È un ritmo di caduta più veloce di quello raggiunto nel post-svalutazione del 2015, quando si raggiunse un tasso annualizzato del 23%. Il secondo grafico, poi, è ancora più chiaro: pare che a fronte dei nuovi dollari che i cinesi stanno acquistando (drenando quindi altra quantità dal mercato, sempre in aumento visto la svalutazione dello yuan), gli stessi stiano comprando opzioni call sullo Standard&Poor’s! 

 

Scherzo ovviamente, la correlazione non è certo fra vendita di valuta cinese e contestuale acquisto di opzioni (almeno, non per ora), ma comunque il cordone ombelicale esiste ed è più che un effetto psicologico: se a livello di scontro commerciale, ovvero la china suicida che Trump ha deciso di intraprendere, quella svalutazione dello yuan è una iattura, dall’altra i mercati statunitensi delle equities (gli stessi che, giova ricordare, campano unicamente di buybacks, quindi indirettamente di Qe) festeggiano, perché quella dinamica della valuta cinese significa anche altro: di fatto, ieri Pechino ha ingaggiato ufficialmente il suo Qe, ritornando – ancorché parzialmente – bancomat del mondo, in attesa che si compia la profezia di Shvets riguardo la Fed (e, state certi, che qualche “intoppo” salterà fuori anche sulla strada del taper della Bce, da qui a gennaio). 

Ieri, infatti, Pechino- tre settimane dopo l’ultimo taglio dei requisiti di riserva delle Banche – ha annunciato ulteriori misure espansive per il supporto del credito bancario e del mercato obbligazionario interno, mossa obbligata quando hai dovuto far fronte da inizio anno a default corporate per un controvalore di 22 miliardi di dollari. E che si tratti di un quasi Qe ufficiale ce lo dicono due cose. Primo, l’utilizzo di strumenti monetari come le Medium Term Loan Facility (Mlf) e il fatto che il denaro di quei prestiti sarà particolarmente focalizzato su detentori di bond con rating AA+ e inferiore, ovvero i più rischiosi. Insomma, supporto di Stato allo stato puro, solo attraverso le banche commerciali: le quali, forniranno liquidità a pioggia su mandato della Pboc. Questo, dopo che soltanto in giugno la stessa Banca centrale di Pechino aveva fornito alle istituzioni finanziarie mercato interno, sempre via Mlf, qualcosa come 665 miliardi di yuan (circa 100 miliardi di dollari), portando il totale di quel tipo di prestiti in atto dai 4.017 miliardi di fine maggio a 4.420,50 di fine giugno.

Insomma, quello che prima che era una cascata di grosse dimensioni, ora sta diventando una quasi nubifragio. Certo, per tamponare la situazione sui mercati, solo a livello di leverage e rischio sul mercato dei bond ad alto rendimento, ci vorrebbe uno tsunami – se non un diluvio – di liquidità, ma, state certi, siamo solo all’inizio. La vera operazione di salvataggio del salvabile – in primis, ovviamente, i casinò finanziari e poi i debiti sovrani più a rischio – partirà quando, potendo respirare proprio grazie a questa mossa della Pboc, le varie Banche centrali occidentali troveranno la scusa migliore e più credibile da vendere alle opinioni pubbliche per bloccare i processi di normalizzazione e tornare, quantomeno, a politiche espansive minime. Per le presse in azione, c’è ancora tempo. Soprattutto se ci penserà la liquidità di Pechino a tamponare i guai più immediati all’orizzonte. 

Insomma, capite ora il senso anche del mio articolo di ieri? Capite il perché del nuovo record intraday del Nasdaq, nonostante i pessimi risultati di Netflix? Capite perché la multa Ue a Google ha fatto il solletico al mercato? Capite perché la vendita di Treasuries della Russia è stato solo un segnale proxy di Pechino per far capire chi comanda? E pensate che gli Usa saranno così intelligenti da cogliere l’occasione per smettere con le dispute dirette e trattare diplomaticamente con Pechino, visto il “favore” che oltre a se stessa, la Cina sta facendo indirettamente a tutto il resto del mondo, sbloccando per l’ennesima volta il Pin del suo bancomat di impulso creditizio? Non sperateci troppo, al Pentagono e nei circoli neo-con la Cina è il vero nemico, non Mosca e non cederanno tanto facilmente. Sono più stupidi che orgogliosi, ora è cosa nota e acclarata. 

Facciano come vogliono, una cosa sola è di fondamentale importanza: l’Ue prosegua sulla strada intrapresa in queste settimane di dialogo e collaborazione sempre più ampia e amichevole con la Cina. L’America si getti pure in burrone, se vuole. Di un Paese falsamente potente, ma in realtà basato unicamente su debito e finanziarizzazione, i cui proventi sono privatizzati e le perdite rese pubbliche a livello globale, il mondo non sentirà la mancanza. E forse un bel bagno di umiltà servirà anche agli americani per capire che la vita non è soltanto carte di credito e mutui allegri per comprare compulsivamente ciò che resta, stinto e un po’ a brandelli, del sogno a stelle e strisce che fu. 





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