SPY FINANZA/ Anche gli Usa frenano e l’occupazione spaventa la Fed

- Mauro Bottarelli

Il governo Usa ha diffuso ieri il rapporto sull'occupazione di agosto e i mercati si chiedono adesso cosa farà la Fed nella riunione del 16 e 17 settembre prossimi. MAURO BOTTARELLI

obama_discorso_rossoR439 Barack Obama (Infophoto)

Il dato sull’occupazione Usa più importante di sempre è arrivato e apre scenari di ulteriore incertezza riguardo la decisione della Fed di alzare i tassi alla prossima riunione del Comitato monetario (FOMC) attesa per il 16-17 settembre. Gli occupati ad agosto sono aumentati di 173mila unità, in frenata rispetto ai 245mila nuovi occupati di luglio e ben lontano fa quanto previsto dagli analisti, i quali si attendevano un incremento maggiore, pari a 220mila unità. In compenso, il tasso di disoccupazione è sceso al 5,1% dal 5,3% di luglio e sotto le stime del 5,2%: peccato che sia accaduto semplicemente per l’ennesimo calo nel numero della forza lavoro attivo.

Come ci mostrano questi grafici, stando a dati ufficiali del BLS statunitense, il calo della disoccupazione ai minimi da aprile 2008 è infatti dovuto al fatto che altri 261mila americani sono usciti dal computo della forza lavoro, portando il numero totale al record di 94 milioni, un aumento di 1,8 milioni dallo scorso anno e di 14,9 milioni dal dicembre 2007. Siamo al 62,6%, ai livelli del 1977, per capirci. Inoltre, il calo del tasso di disoccupazione al 5,1%, minimo dall’aprile 2008, appare legato anche alla decisa revisione al rialzo del dato sui nuovi occupati di luglio, saliti da 215mila a 245mila. A favore di un aumento dei tassi, invece, il dato delle retribuzioni medie orario che sono cresciute dello 0,3% rispetto al mese precedente, contro le attese di +0,2%.

E negli Usa, sono in tanti a non togliere affatto dal tavolo l’opzione di un rialzo: “I dati macroeconomici americani, a parte la delusione sui payroll di agosto, sono complessivamente positivi e hanno fatto aumentare la possibilità di un rialzo dei tassi da parte della Fed al 32% a settembre e al 60% al dicembre”, ha dichiarato uno strategist, interpellato dall’agenzia MF-DowJones. Insomma, i dati sul lavoro Usa non allontanano il rialzo dei tassi, semmai lo avvicinano: “I dati non sono così negativi come potrebbe sembrare a una prima occhiata”, ha confermato un altro strategist all’agenzia MF-Dowjones, facendo notare che sì i payrolls si sono fermati a 173mila unità ma i numeri di luglio sono stati rivisti al rialzo a 245mila. Inoltre l’esperto ha osservato che la disoccupazione è scesa sui minimi da aprile 2008 ma soprattutto che i salari hanno accelerato, salendo dello 0,32% mese su mese a 25,09 dollari, mentre il mercato si aspettava un incremento solo dello 0,2%, come anticipato.

Detto fatto, la percentuale di esperti che vede possibile un rialzo già questo mese è salita dal 26% al 32%, mentre per dicembre siamo al 60%. Chi non sembra avere dubbi sulla tempistica di un rialzo dei tassi Usa è il presidente della Fed di Richmond, Jeffrey Lacker, a detta del quale i tempi sono maturi per un aumento di un quarto di punto: “E’ tempo di allineare la nostra politica monetaria con i significativi progressi raggiunti. Il maggior argomento a favore del rialzo è nel rafforzamento della spesa dei consumatori, è improbabile che se oggi uscissero dei dati deboli sull’occupazione ciò possa alterare materialmente il quadro generale dell’occupazione o le prospettive della politica monetaria”. Per il presidente della Fed di Richmond, dunque, “i miglioramenti nel mercato del lavoro attesi dalla Fed per alzare i tassi si sono materializzati, anche perché i recenti sviluppi in Cina sembrano avere un impatto diretto piuttosto limitato sui fondamentali dell’economia Usa”.

E c’è da considerare un’altra variabile: i mercati cinesi riapriranno lunedì, dopo due giorni di chiusura per le celebrazioni della vittoria sul Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, mentre la Borsa americana resterà chiusa proprio lunedì per il Labor Day: “Gli investitori statunitensi potrebbero quindi effettuare delle vendite per non restare esposti alle eventuali turbolenze cinesi”, ha affermato un trader. Insomma, pura strategia e, non a caso, Wall Street ha aperto in pesante ribasso su tutti gli indici. Io però voglio darvi un paio di dati in più, rispetto a quelli ufficiali.

Primo, come ci mostra questo grafico, il tasso di disoccupazione può essere un indicatore fuorviante. Al di là dell’abbassamento della partecipazione alla forza lavoro, infatti, c’è da considerare un’altra variabile, ovvero il cosiddetto tasso U6, che include chi cerca lavoro ma è scoraggiato e ha smesso di farlo, oltre a chi ha un lavoro part-time e non riesce a trovarlo a tempo pieno. Questo tasso è ancora a un allarmante 10,4%, parliamo di 17 milioni di americani e dopo sei anni di stimolo della Fed e formale ripresa economica (almeno così ce l’hanno spacciata Corriere, Stampa, Repubblica e Sole24Ore) non mi pare un dato né incoraggiante, né normale. E’ inusualmente alto. Di più, le dinamiche salariali sono stagnanti, altro dato che smentisce la vulgata ottimista di chi guarda solo ai dati ufficiali. Il paycheck del lavoratore americano medio è salito solo del 2% dal 2010 ad oggi, contro la media di quasi il 4% che accompagna storicamente i cicli di espansione dell’economia. E nonostante le dotte analisi di economisti e lo stesso Beige Book della Fed, l’abbassamento del tasso di disoccupazione ufficiale non ha visto un contemporaneo aumento nelle dinamiche salariali. Anzi. E c’è di più ma questo sui titoloni dei giornali domani non lo leggerete.

Guardate questi due grafici:

Ci dicono che per l’America dei dirigenti i cieli sono davvero sempre più blu, visto che un aumento salariale del 3,7% non si vedeva da decadi: con un dato così, la Fed potrebbe alzare non di un quarto di punto ma di due punti e mezzo i tassi di interesse. Un po’ diversa la situazione per gli altri lavoratori, quelli non con ruolo di potere e che pesano solamente per l’82,5% del totale della forza lavoro Usa: insomma, come vedete, 140 milioni di statunitensi hanno stipendi le cui dinamiche di crescita non riescono a stare al passo con l’inflazione! Tanto più che giovedì la Challenger-Gray ha reso noti i dati sui tagli occupazionali di agosto, saliti su base annua del 2,9%, quando furono annunciati 40.010 licenziamenti. E, cosa peggiore, da inizio anno le imprese hanno comunicato 434.554 tagli occupazionali, il 31% in più dei primi otto mesi del 2014. Ma non solo: con un tasso mensile medio di 54.319 tagli, il dato annualizzato per il 2015 potrebbe superare le 650mila unità, il dato più alto dal 2009, quando si arrivò a 1,272.030. Curiosamente, il comparto più colpito non è stato quello energetico ma quello delle vendite al dettaglio, con 9.601 tagli, molti dei quali legati al fallimento della catena di supermercati A&P nella East Coast che ha portato come conseguenza la chiusura di oltre 100 punti vendita. Da inizio anno, il settore retail ha annunciato 57.363 tagli occupazionali, il 90% in più dei 30.109 dei primi otto mesi del 2014. Il tutto, in un Paese dove il 70% abbondante del Pil è dato dai consumi.

Insomma, non proprio un mercato del lavoro che grida ripresa. Forse, anche a causa della sua composizione, visto che la ECRI ci dimostra con questo grafico

Che la bassa disoccupazione sbandierata come un successo dalla Fed potrebbe non significare pressoché nulla, visto che la cosiddetta ripresa è stata garantita in maniera sproporzionata da lavoro sotto pagato e da lavoratori con bassa educazione. Insomma, la stagnazione della crescita salariale nominale che gli Usa stanno vivendo sarebbe anche frutto della cosiddetta ratio occupazione/educazione (E/P), visto che dal 2011, la metrica di chi aveva una ratio inferiore all’educazione da liceo ha riguadagnato i due terzi delle sue perdite da recessione (la linea arancione nel grafico). Mentre invece, per quanto riguarda chi ha una ratio E/P di educazione superiore o laurea (ovvero 8 americani adulti su 9), è rimasta fissa dov’era da tre anni a questa parte (la linea violetta nel grafico). Insomma, dai dati reali dell’America reale si desume che un aumento dei tassi non sarebbe proprio una bella idea.

Il problema è che con la Cina e gli altri mercati emergenti che drenano riserve per stabilizzare le loro valute e tamponare i deficit da mancato introito di export, al netto di enormi stock di debito denominati in dollari, la Fed non può fare altro che operare un nuovo QE, il quarto dal 2009, oltre a “Operation Twist”. E per farlo senza perdere faccia e credibilità del tutto, ha bisogno di un’emergenza, ha bisogno di spaventare la gente, ha bisogno di crolli azionari controllati se non creati ad arte. Per questo, temo, potrebbe arrivare all’azzardo di alzare davvero i tassi tra dieci giorni. Se non lo farà, però, state certi che un altro “Black Monday” è alle porte, perché senza una nuova iniezione di metadone di Stato, il mercato verrebbe giù veramente, a partire dal mercato obbligazionario, sovrano e non. Siamo a uno snodo storico, viviamolo con attenzione. E speriamo di poterlo raccontare ai nipoti, dicendo che la Fed ancora una volta è riuscita a evitare l’Armageddon. Ma spostandolo solo più avanti, però, perché l’eccesso di debito non si cura con altro debito. Mai.





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