IDEE/ Noi, vittime dell’ambientalismo che ci “sbrana”

- Michele Corti

Sulle Alpi, orsi e lupi stanno riguadagnando terreno. Nei più diffusi organi di informazione, i predatori sono salutati come un ritorno alla vera civiltà. Ma è così? MICHELE CORTI

ecologismo_protestaR400 Ambientalisti tedeschi in azione (InfoPhoto)

Anche gli osservatori meno attenti alla componente “ecologica” o “naturalistica” del discorso pubblico non possono non aver notato come negli ultimi anni il tema del ritorno dei grandi predatori, come orsi e lupi, sia divenuto oggetto di un interesse che va ben al di là di quello riservato a temi di “ordinaria gestione faunistica”. I furiosi dibattiti che occupano i mezzi di informazione locale laddove i grandi predatori impattano sul tessuto sociale (Trentino, Cuneo) non “bucano” però sui media nazionali per preservare un quadro idilliaco di gioiosa “ri-naturalizzazione”.

Sulla rete, invece, è un moltiplicarsi di forum e di blog, di petizioni strampalate che rispecchiano lo spettro delle posizioni animal-ambientaliste comprese quelle più hard, spia delle componenti ideologiche e antropologiche del fenomeno.

La mitologia o, se preferiamo, la costruzione sociale, del “ritorno del grande predatore” appare ormai ben delineata. Gli oggetti di questo interesse sono rappresentati dall’orso e dal lupo, animali “carismatici” e capaci di scatenare le più profonde emozioni. Le corrispondenti specie zoologiche, gli animali in carni ed ossa, non contano; sono in gioco rappresentazioni che filtrano tutto ciò che nell’immaginario questi simboli hanno evocato alla luce della realtà radicalmente diversa dell’ homo metropolitanus che con la “natura” ha un rapporto pesantemente condizionato dalla perdita di consapevolezza dei termini reali del ricambio tra sfera sociale e naturale. Per l’homo metropolitanus che raccoglie il cibo… dagli scaffali degli ipermercati, la natura è diventata un oggetto che, nell’esperienza personale, è solo lo sfondo di attività ludico-sportive. Per lui la Natura diventa un “santuario” da non violare. Poco importa se l’uomo introducendo le “sue” piante e i “suoi” animali ha determinato la trasformazione irreversibile degli ecosistemi creando habitat adatti a “nuove” specie selvatiche di animali e di piante. 

Assemblando alcuni concetti ecologici decontestualizzati è stata costruito una specie di culto costruito intorno alla mistica dell’orso/lupo “vindice” di una natura oltraggiata che riprende il suo spazio. Sintomatiche le dichiarazioni di Daniele Zovi, comandante del Corpo forestle dello Stato di Vicenza rilasciate nel maggio 2010 al Giornale di Vicenza:   “L’allarme su Dino (un orso, ndr) è eccessivo. Non fa male agli uomini ed è una rivincita della natura, capace di affascinarci col suo mistero”. Toni così ispirati da parte di un pubblico ufficiale non sono usuali.  

Il grande predatore ha così assunto un connotato taumaturgico e salvifico. Il suo ritorno, gabellato quale “biologicamente necessario” sulla base di un autoritarismo tecnocratico che si fa forte di linguaggi “ecologici” senza fondamento scientifico, è in realtà funzionale a una “rinaturalizzazione” che risponde ad esigenze ideologiche, simboliche ed economiche della società metropolitana. L’economia globale che desidera il pieno controllo sulle risorse desidera allontanare dalla terra quelle comunità che, nelle aree “marginali”, resistono in economie parzialmente autosufficienti. Nelle montagne e nelle altre aree si vuole mano libera per sfruttare le riserve idriche, il legname, la biodiversità. Orso e lupo sono fatti accettare alle popolazioni riciclandoli in campioni di buonismo, e mescolando una presunta legittimazione scientifica (“l’orso è vegetariano”, “il lupo non attacca l’uomo”) con i motivi dell’Eden e dell’escatologia (l’agnello e il lupo che convivono pacificamente). 

Ciò mentre al tempo stesso si eccita l’immaginario della borghesia urbana in pantofole con motivi che pescano nello stesso materiale simbolico che ha costruito il ruolo totemico di questi animali (dai cacciatori paleolitici a Hitler), eretti a simboli di cultura guerriera e aristocratica, a trasposizione e rappresentazione del potere. Il sentimento popolare che riflette l’esperienza delle comunità di montagna viene dileggiato, viene rimarcata l’inferiorità sociale di pastori, contadini, montanari (legati a pregiudizi irrazionali) riaffermando i confini tra i detentori del potere e gli esclusi. 

La strategia propagandistica attuata dai gruppi di pressione animal-ambientalisti è chiara, così come sono chiari i motivi per cui essa riceve un ampio supporto dai gruppi di potere. La nuova religione della natura incontaminata, che vede l’uomo come un nemico (“l’unica specie nociva è l’uomo” è uno slogan in voga tra questi animal-ambientalisti) è espressione di un cupo nichilismo.

Dietro queste espressioni surrogatorie, schizofreniche e disperate vi è l’aspirazione ad una dimensione in cui il sacro e il fatto religioso possano riacquistare lo spazio negato. 







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