SCUOLA/ Chiosso: meno Stato, più autonomia e più sapere, così cambiano i licei

- int. Giorgio Chiosso

Sono state rese note le Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento per i licei. GIORGIO CHIOSSO, pedagogista, fa parte del gruppo tecnico di lavoro che lunedì ha consegnato le Indicazioni al ministro Gelmini

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Sono state rese note le Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento per i licei. Ora si apre la discussione con il mondo della scuola: un confronto ad ampio raggio che coinvolge scuole, associazioni, accademie e enti di ricerca. Giorgio Chiosso, pedagogista e docente all’Università di Torino, fa parte del gruppo tecnico di lavoro che lunedì ha consegnato le Indicazioni al ministro Gelmini.

Professore, quali sono i criteri che hanno fatto da guida al vostro lavoro?

Penso di poter dire che il principale criterio che ha orientato la stesura delle Indicazioni è stato quello della coerenza con il principio dell’autonomia delle scuole. È un aspetto finora poco sottolineato da quanti in questi giorni hanno commentato i documenti provvisori resi noti dal Ministero. Questa è la scelta e al tempo stesso la novità strategica delle Indicazioni. Non più i Programmi prescrittivi dall’A alla Z secondo una pedagogia ministeriale che, nel trascorrere delle stagioni politiche, è di volta in volta cambiata, ma la semplice indicazione di ciò che non si può non insegnare e non sapere per essere un cittadino italiano ed europeo consapevole.

Detta così sembra semplice. Lo Stato ha fatto «marcia indietro»?

Lo Stato non ha una sua pedagogia. Spetta alle scuole tradurre in processi di apprendimento e in azioni educative i nuclei essenziali e irrinunciabili fissati dalla Indicazioni. È su questa base che ogni studente è tenuto ad acquisire le proprie conoscenze e a maturare le competenze personali. Dico competenze personali perché le competenze non possono essere definite una volta per tutte, ma rappresentano una laboriosa conquista personale rispetto alle conoscenze acquisite.

Questo per quanto riguarda l’autonomia. E poi?

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Il secondo criterio è quello della essenzialità e della irrinunciabilità delle conoscenze. Nelle Indicazioni non c’è tutto quello che le scuole debbono fare: se così fosse saremmo nella logica dei Programmi tradizionali. Le Indicazioni segnalano ciò è irrinunciabile secondo una logica inclusiva e non esclusiva. Intorno al nucleo essenziale spetta infatti ai collegi dei docenti e ai singoli insegnanti – anche in relazione alle quote di flessibilità previste dagli orari – articolare i percorsi scolastici integrando la parte essenziale con altre conoscenze in modo adeguato e coerente con il Profilo in uscita previsto per ciascun liceo.

 

Qual è il valore aggiunto di questo approccio?

 

Questa impostazione – che anche in questo caso non mi pare sia stata finora colta in tutta la sua densità – assegna agli insegnanti una grande responsabilità culturale ed educativa. Spetta a loro compiere le scelte più idonee per far crescere gli alunni sul piano culturale, nel senso critico, aiutandoli a diventare persone capaci di capire e non solo di ripetere. C’è bisogno dunque non solo di docenti «tecnici esperti», ma anche docenti capaci di stimolare le capacità personali e promuovere cultura.

 

Come dobbiamo orientarci nei documenti?

 

Sono fruibili da un vasto pubblico. Mi pare molto importante segnalare lo stile con cui le Indicazioni sono state elaborate e scritte. Non più di due pagine per ciascuna disciplina, con l’impiego di un vocabolario alla portata di tutti, senza specialismi e senza i gergalismi tipici di una certa letteratura ministeriale. Mi sento di poter dire che dalle Indicazioni viene una lezione di chiarezza, semplicità, trasparenza. Ognuno ha ovviamente il diritto di esprimere consenso o dissenso, ma nessuno può lamentare oscurità, ambiguità o indeterminatezza.

 

Si è molto discusso in questi giorni se la scansione cronologica prevista dalle Indicazioni non rischi di esagerare sul versante della contemporaneità. Insomma, è sempre il ’900 a far discutere.

 

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 Era prevedibile. Penso anche ad alcune annotazioni critiche circa le difficoltà a esplorare in modo adeguato la letteratura italiana contemporanea o alcune scottanti e delicate vicende della storia più recente. Ma non dobbiamo dimenticare che il Novecento è «il secolo scorso» e che la scuola ha il dovere di esaminarlo criticamente, con la problematicità delle questioni aperte e adottando gli stessi strumenti metodologici impiegati per indagare altri momenti della nostra storia. Anche sul Risorgimento, per fare un solo esempio, c’è un dibattito aperto, ma nessuno si sognerebbe di sostenere che la diversità di interpretazioni è di ostacolo all’insegnamento scolastico.      

 

Le Indicazioni sottendono una precisa idea di liceo. Quale?

 

Per noi il liceo è la scuola che preferenzialmente – ma non esclusivamente – fornisce una cultura di accesso universitario. Abbiamo interpretato quest’idea in senso ampio, perché da un lato ci siamo ricollegati alla storia della tradizione liceale italiana, centrata sul liceo classico, ma dall’altro l’abbiamo innovata, evitando di restarne prigionieri. In caso contrario avremmo detto che il liceo classico è la scuola dell’eccellenza, e che gli altri licei vengono di conseguenza. No: la licealità è una ma declinata in modi diversi. Basta vedere le Indicazioni: italiano, storia, filosofia e lingua straniera sono uguali per tutti i licei.

 

Una delle parole chiave più controverse della riforma è quella delle competenze. Anche lei vi ha fatto cenno all’inizio. Qual è la sua opinione?

 

Penso che questa parola sia ormai abusata. Preferisco partire dal concetto del sapere. La scuola ha come scopo di fornire il sapere, che poi si traduce in competenza nella misura in cui è un sapere che ciascuno personalizza. Non immagino un concetto di competenza oggettivistico, con un’autorità che definisce le competenze per tutti. Lo Stato ha l’obbligo di definire le cose irrinunciabili perché Tizio sia una persona che ragiona con la sua testa. La competenza deve essere una conseguenza del sapere, una rielaborazione e una traduzione personale della capacità di apprendere. Inoltre è una nozione che può presentare dei rischi. E il primo di questi è senz’altro un eccesso di proceduralismo: che facilita forse il lavoro degli insegnanti, ma che rappresenta certamente una delle tante forme dell’anticultura di oggi.

 







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