DECRETO CORONAVIRUS/ Il giurista: il caos delle regole rischia di aumentare il panico

- Giulio M. Salerno

L’ultimo decreto Conte per fronteggiare l’emergenza coronavirus mostra gravi limiti e deroga alla Costituzione in modo sbagliato e preoccupante

conte 12 lapresse1280 640x300 Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (LaPresse)

Il coronavirus non si sta arrestando e il presidente del Consiglio, dopo una giornata frenetica di consultazioni e prevedibili fughe di notizie, ha adottato un nuovo Dpcm che, nel giro di pochi giorni, ha sostituito, aggravato ed esteso le misure già prese per impedire l’estensione del contagio. Intanto, personalità politiche di primo piano – sia a livello nazionale che territoriale – così come vertici delle istituzioni civili e militari risultano positivi e sono costretti all’isolamento ed al passaggio di consegne. Dal 25 gennaio si contano, salvo nostri errori ed omissioni, sette ordinanze del ministro della Salute (alcune a doppia firma con singole Regioni), tre decreti-legge, cinque ordinanze del presidente del Consiglio dei ministri, dodici ordinanze (o decreti) del capo dipartimento della Protezione civile, una direttiva del ministero dell’Interno, oltre alle ordinanze adottate in ciascuna Regione anche dopo l’accentramento delle competenze nel presidente del Consiglio, e volte stabilire misure aggiuntive e più restrittive.

La popolazione, pur largamente disposta a seguire le indicazioni delle pubbliche istituzioni, appare inevitabilmente disorientata: la rincorsa, la moltiplicazione e il frazionamento delle regole di comportamento, ripetutamente cambiate, hanno prodotto disorientamento e confusione, che si sono aggiunti alle incertezze già indotte dalle diverse opinioni variamente espresse sul tema in questione da parte degli esperti. Se il medium è il messaggio, come insegnava McLuhan, il risultato è stato immediato: dal caos delle regole al caos dei comportamenti.

Ad esempio, se si esamina l’ultima ordinanza del presidente del Consiglio, cosa significa disporre la sospensione, su tutto il territorio nazionale, degli “eventi (…) di qualsiasi natura (…) svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato”? Quando e a quali condizioni una riunione di più persone in un luogo privato può essere considerata un “evento” e dunque proibita? Quando si prescrive di “evitare ogni spostamento (…) all’interno dei medesimi territori” della zona rossa, fatti salvi tre casi (ragioni di lavoro, necessità e salute), significa che si impone anche il divieto di uscire di casa? E poi ha senso consentire, senza alcun limite o condizione, a chi si trova nella zona rossa il “rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”, se lo scopo essenziale dell’ordinanza è proprio quello di evitare gli spostamenti della popolazione che per qualunque motivo si trova nella “zona rossa”?

Un aspetto delicato è poi chi dovrebbe decidere quando, nell’ormai estesissima zona rossa, “gli spostamenti” siano giustificati in quanto, ad esempio, “motivati da comprovate esigenze lavorative”. Soltanto la successiva direttiva – interpretativa – del ministro dell’Interno ha aggiunto che basta un’autodichiarazione, che potrà essere soggetta a controlli successivi. Ma è evidente che, quando si passa dalle raccomandazioni sanitarie alle prescrizioni giuridiche – la cui violazione comporta pure sanzioni penali – devono essere ben diverse la prospettiva e l’attenzione di coloro che hanno assunto il compito di creare questo “stato di eccezione”. Senza che il Parlamento possa esprimersi, e senza che il Capo dello Stato possa verificare alcun controllo preventivo.

Purtroppo dobbiamo constatare che da questo punto di vista, pur a fronte della generosità dell’impegno profuso, la gestione dell’emergenza sta mostrando preoccupanti limiti e difficoltà, che, a nostro avviso, sono in gran parte riconducibili alla cosiddetta “catena di comando” che si è istituita, prima con la dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio e poi con il decreto-legge n. 23/2020, peraltro in deroga alle competenze già previste dal nostro ordinamento per le situazioni di emergenza sanitarie. Concentrare il processo decisionale nella Presidenza del Consiglio, che per sua natura esercita per lo più funzioni di coordinamento, e individuare il vertice operativo e comunicativo nella Protezione civile, che da tempo è strutturata come uno strumento di collegamento tra le istituzioni, sono stati errori imperdonabili.

Soprattutto, stiamo assistendo ad un processo di scivolamento del problema e delle risposte: siamo in una condizione di crisi sanitaria o stiamo assistendo ai prodromi di una vera e propria emergenza costituzionale che giustifichi ogni specie di sospensione, più o meno temporanea, delle regole costituzionali e democratiche?

In brevissimo tempo, gli effetti del coronavirus hanno prodotto consistenti deroghe delle libertà costituzionali, per di più imposte non con lo strumento del decreto-legge, ammesso dalla Costituzione proprio per fronteggiare “casi straordinari di necessità ed urgenza”, ma con modalità non previste dalla Costituzione, cioè, soprattutto, mediante l’ordinanza del Presidenza del Consiglio dei ministri.

Per di più, si sono determinati effetti rilevanti su alcuni meccanismi essenziali della nostra democrazia, rappresentativa e diretta. Tra l’altro, le due Camere hanno deciso di riunirsi un solo giorno a settimana, e solo per trattare affari urgenti ed indifferibili, e il Governo ha deliberato di proporre la revoca del decreto di indizione del referendum costituzionale già indetto dal presidente della Repubblica, senza indicare, peraltro, una nuova data. Distorsioni ed eccezioni all’apparenza banali rispetto alla drammaticità degli eventi che toccano la nostra collettività, ma di rilevante impatto per il concreto funzionamento della nostra democrazia. La democrazia non è un gioco, e con le sue regole non si gioca a dadi, nemmeno in nome dell’emergenza.







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