SCUOLA/ Rigotti: cari prof, non si insegna (e non si impara) nulla senza libertà

- Eddo Rigotti

La relazione di EDDO RIGOTTI al convegno “La conoscenza nella scuola” organizzato dall’Associazione culturale “Il Rischio Educativo” sabato 19 febbraio all’Università Cattolica di Milano

studentessa_scriveR400 Immagine d'archivio

L’insegnamento è possibile se, oltre l’insegnante, c’è qualcuno che impara e qualcosa che è imparato. Anzi, chi impara e la cosa imparata sono, a ben vedere, i fattori costitutivi della vicenda dell’insegnamento. Impariamo, infatti, infinite cose senza che nessuno propriamente ce le insegni: imparare la nostra lingua (che magari è il nostro dialetto) dai genitori non è come imparare la grammatica o l’ortografia dall’insegnante. Imparare la lingua dai genitori è imparare dall’esperienza, dal rapporto diretto con la realtà umana e non umana che ci circonda, interagendo nell’esperienza mediata dalla comunicazione con i nostri genitori e gli altri adulti. È così che impariamo, talvolta a nostre spese e comunque a nostro vantaggio, che l’acqua può scottare o raggelare, che i fichi sono più dolci delle mele, che il coltello taglia e che la rosa può anche pungere (e la camelia invece no), che, se c’è un sotto, deve necessariamente esserci anche un sopra, e che la neve, prima o poi, si scioglie. L’evento che segna il successo dell’insegnamento è, in ogni caso, al di là dell’insegnante.

Mi paiono importanti due messe a fuoco:

A) Per un soggetto, imparare o, forse meglio, apprendere, è cominciare a conoscere qualcos’altro. Oggetto  di conoscenza può essere solo ciò che è reale. Questo spiega il non-senso di una frase come

Giovanni sa che Luigi è arrivato, ma io so che Luigi è rimasto a casa

Mentre sono possibili sia

Giovanni crede che Luigi sia arrivato, ma io so che Luigi è rimasto a casa

E

Giovanni crede che Luigi sia arrivato, ma io credo che Luigi sia rimasto a casa.

Posso parlare di conoscenza solo in rapporto alla realtà: per la sua struttura semantica e ontologica il conoscere presuppone (esige) come oggetto qualcosa di reale, ossia presuppone la verità del suo oggetto.

B) Il fatto che il nesso fondamentale sia quello fra chi impara e la cosa imparata, non significa che il ruolo dell’adulto nell’apprendimento scompaia e nemmeno che sia di poco conto. Come vedremo, l’adulto è presente, ma non è un “travasatore” di contenuti secondo programmi preconfezionati. Il suo ruolo è più delicato ed incisivo.

Approfondiamo brevemente sul primo punto. Apprendere come fare “conoscenza di” non è acquisire un’informazione, sia pure materialmente vera. L’informazione diventa conoscenza solo quando diventa rilevante per il soggetto, quando assume significato per il suo destino. Acquista interesse in quanto il rapporto del soggetto con la cosa che l’acquisizione della conoscenza porta in luce, conduce il soggetto alla consapevolezza della rilevanza che questa cosa ha per lui, della pertinenza della cosa al suo destino.

È diverso inquadrare la presenza degli umani sulla terra come un incidente increscioso di cui l’etica e l’ecologia suggeriscono di delimitare il più possibile le implicazioni perverse, o come lo sbocciare sorprendente, misterioso di un’autocoscienza capace di interrogarsi sul senso di sé, cioè capax Dei.

Ma un altro tratto essenziale contraddistingue la conoscenza rispetto alla pura informazione: la sua razionalità. Potremmo definire questo tratto in relazione ad un trascendentale della filosofia medievale, Ens et verum convertuntur che sottolinea l’intelligibilità del reale. Ma senza troppo addentrarci in pensieri filosofici, potremmo forse dire in modo molto semplice che la conoscenza non è puramente informazione in quanto è risposta ad un perché.

Sto pensando ai perché dell’infanzia con cui il bambino sfida l’adulto, quasi puntando a conquistare un suo accesso diretto alla realtà. Pare che questo dispositivo critico, che si attiva quasi naturalmente appena il bimbo ha strumentato e strutturato il suo rapporto con la realtà mediante il linguaggio, sia fondamentalmente disattivato nella vita scolastica. Tutti noi, tuttavia, speriamo che non sia del tutto vero.

 

Per capire la natura di questo dispositivo critico dobbiamo individuare i bisogni di conoscenza del bambino proprio distinguendo i diversi usi semantico-pragmatici di perché. Una  ricerca sulle strutture argomentative nei discorsi a tavola di famiglie italiane e svizzere che viene ora condotta da Antonio Bova (un allievo del professor Galimberti), ha evidenziato che i bambini dai 4 agli 8 anni usano i loro micidiali perché per innescare scambi argomentativi e ragionamenti di diverso tipo e complessità. Ricorre con una certa frequenza il perché causale o esplanatorio, che chiede la spiegazione di un fatto (del tipo di Perché il nonno quando si addormenta russa?).

 

Vediamo, per esempio, quest’uso nel dialogo tra Luca, un bambino di 6 anni, e il suo papà. Guardando fuori dalla finestra Luca ha osservato che, diversamente dai giorni passati, non piove e chiede al papà: x

Papà, perché non piove oggi?” Nella sua simpatica risposta il papà formula una spiegazione adottando la metafisica animistica del bambino: “Perché oggi le nuvole sono piene d’acqua, ma la vogliono tenere tutta per loro ancora un po’!

 

Luca, attraverso il suo perché, punta a conoscere la causa, le origini di un evento. La domanda di Luca è, a ben vedere, la stessa domanda che genera la scienza (scire per causas), ma è anche la domanda con cui noi ci interroghiamo, attraverso forme linguistiche diverse, sulla nostra origine, e quindi sulla nostra appartenenza.

 

[Mi ricordo che, quando ero piccolo, molto piccolo, le signore anziane del paese, spesso, incontrandomi, con aria inquisitoria, quasi accusandomi di esistere, mi domandavano nel mio dialetto trentino “Popo, de chi se’t ti?” (“Bambino, di chi sei?”), quasi dovessi giustificare la mia presenza dicendo chi erano i miei genitori. In seguito, giunto al liceo, ho trovato che anche a Dante avevano rivolto, in un canto dell’Inferno, la stessa domanda  “Chi fur li maggior tui?”), anche se devo ammettere che c’era un’altra solennità, tant’è vero che nel poeta la domanda suscitò semplicemente fierezza. Più recentemente, un ricercatore del progetto Argupolis di origine calabrese mi ha confidato che anche a lui le signore anziane del paese chiedevano con aria inquisitoria “A cui apparteni?”. È interessante il nesso fra origine e appartenenza].

Un altro perché, forse più frequente, è di natura argomentativa e richiede invece di dare le ragioni. Sono richieste anzitutto le ragioni delle azioni, del fine per cui un’azione è compiuta. Il fine coincide qui con l’argomento che giustifica un’azione, ossia ne mostra la ragionevolezza. Qui si possono attivare lunghissime catene, fra il giocoso ed il persecutorio: Perché esci? Vado in biblioteca. Perché vai in biblioteca? Devo leggere un libro. Perché devi leggere un libro? Devo imparare certe cose. Perché…? Attraverso queste domande il bambino sembra scoprire le gerarchie teleologiche a cui le nostre azioni, spesso solo implicitamente, rimandano. Il perché argomentativo è spesso usato per contestare un rifiuto come in questo breve dialogo dove Elisa, una bambina di 7 anni, chiede alla sua mamma:

 

Mi dai questo limone per giocare, mamma?”. La mamma, impegnata a cucinare, risponde ad Elisa con un rifiuto che si giustifica con una impossibilità: “No, i limoni non te li posso dare per giocare”. Ed Elisa, a questo punto mette in discussione il rifiuto chiedendo di esplicitare le ragioni dell’impossibilità: “Perché?”. La mamma argomenta: “Perché i limoni mi servono per fare una buona insalata per papà”.

 

Un analogo perché chiede invece le ragioni di regole ed ingiunzioni (divieti, comandi, inviti, consigli, raccomandazioni), e quindi li mette in discussione. Sono spesso accompagnati da argomenti per giustificare la contestazione. Come nel breve dialogo tra Marco, un bambino di 5 anni, e la sua mamma. Marco osserva che il suo papà prende delle medicine per curare l’influenza. Ovviamente, ne rimane estasiato e argomenta per analogia:

 

Anche io voglio le medicine che ha preso papà, mamma”. La mamma, naturalmente, non è d’accordo e formula un divieto: “Tu non puoi, Marco”. Questa risposta non soddisfa naturalmente il bambino, che sfida a dare le ragioni del divieto: “Perché no?”. La mamma replica con un argomento, molto interessante, che rimette tutti i protagonisti della vicenda al loro posto: “Perché i bambini devono prendere delle medicine particolari. Non possono prendere le medicine dei grandi, altrimenti si sentono male”.

 

Molto chiaro anche l’esempio in cui Chiara, una bambina di 5 anni, negozia con il suo papà la quantità di cibo che può lasciare nel piatto, aggiungendo, di striscio, un argomento: “Questo poco di pasta lo posso lasciare?” (sollevando leggermente il suo piatto per mostrarne il contenuto al papà). Qui l’espressione questo poco argomenta naturalmente per una concessione. Il papà replica con una proibizione: “No, non puoi”. A questo punto Chiara, certamente più determinata a contestare la proibizione paterna che affamata, ricarica: “Perché, papà?” Il papà confuta con l’evidenza l’argomento del questo poco: “Non ne hai mangiato per niente, Luisa”.

È chiaro come al piccolo dell’uomo non basti l’informazione e voglia l’accesso alla realtà ed al suo significato. Quegli stessi perché possono diventare di quando in quando domande che indagano il significato della nostra esistenza. Vogliono sapere la nostra origine, il nostro compito e il nostro destino. La conoscenza con la sua razionalità, la sua rilevanza esistenziale, è allora un’esigenza naturale dell’essere umano.

I perché dei bambini, anche se sembrano un gioco, e certamente spesso lo sono, rappresentano il momento centrale della dinamica della crescita, una dinamica che è umano tenere viva in noi attraverso tutta la nostra esistenza: non possiamo considerare l’adulto come qualcuno che non cresce più, anche se questo può essere vero dal punto di vista biologico. La dinamica del perché, essenziale per l’apprendimento, lo è di conseguenza anche per l’insegnamento che viene trasformato in una vera e propria interazione argomentativa, una critical discussion.

 

Qui forse qualcuno si aspetta e dunque teme che ora io passi a considerare la teoria dell’argomentazione introducendo qualche definizione tecnica e qualche procedimento, magari qualche analytic overview o qualche Y-structure. Preferisco raccontare un episodio.

Un’insegnante di religione in una terza elementare è fortemente contestata da un allievo: “Perché impariamo la religione se la scienza ha dimostrato che non è vera?.Apparentemente si tratta di una domanda, in realtà (come è spesso il caso con le domande retoriche)  è una tesi sostenuta da un’argomentazione a due strati dove un argomento rimanda ad un altro argomento:

Tesi: È irragionevole che noi impariamo la religione 

Argomento 1: La religione non è vera

Argomento 2: Lo ha dimostrato la scienza

In effetti l’argomento 1 è in sé stesso una buona giustificazione per la tesi: è davvero irragionevole pretendere che qualcuno impari quello che non è vero, cioè che non esiste, perché imparare è cominciare a conoscere e oggetto del conoscere può essere solo ciò che è reale, cioè vero. In questa prospettiva (se davvero la scienza avesse dimostrato la falsità della religione) avrebbe senso solo l’ateismo. Ma l’argomento 1 regge soltanto in quanto è sostenuto dall’argomento 2.

 

È su questo che deve incentrarsi la riflessione dell’insegnante. Il suo compito non è davvero semplice. Lei avverte naturalmente che l’apparato contestatorio dell’allievo non è farina del suo sacco e che è totalmente o in parte un discorso riportato. Avverte anche che c’è al fondo un’ideologia scientista, spesso sostenuta da una divulgazione scorretta, magari con i soliti rimandi a Keplero e Galileo.

Sarebbe tentata di rispondere per le rime e di mettere in guardia l’allievo dalle manipolazioni, ma, nella migliore delle ipotesi, la sua adesione sarebbe ex auctoritate, senza ragioni. Peraltro coglie nella provocazione dell’allievo una straordinaria opportunità: può mettere a tema una distinzione importante, favorendo un punto di crescita e un guadagno di consapevolezza di tutta la classe. Sente anche il bisogno di approfondire per conto suo il punto e di studiare un modo per dirlo che sia su misura dei suoi allievi, che rispetti la loro categorialità. Così non si impegna in una confutazione estemporanea: sa che è in scuola e non in un talk show. Loda anzitutto l’allievo per aver affrontato un problema importante che bisogna considerare approfonditamente e riconosce che nel suo ragionamento c’è un primo passaggio perfettamente corretto sottolineando che resta da vedere un secondo punto sul quale bisognerà tornare nella lezione successiva:

Hai ragione a dire che non ha senso studiare le cose false, dobbiamo, però, vedere se la scienza abbia davvero dimostrato che la religione è falsa. Bisogna che ci torniamo su la prossima volta.

Così prende tempo. Credo che questa insegnante abbia davvero trovato un modo adeguato per fare argomentazione nella scuola: non si tratta di introdurre una materia in più allestendo una piccola teoria dell’argomentazione, ma di insegnare argomentando, ossia di insegnare dando le ragioni. Il primo passo nell’argomentazione, che è una messa alla prova della propria posizione davanti alla ragione dell’altro, è il riconoscimento e la stima della ragione dell’altro. Il bisogno di verifica manifestato dall’allievo viene così incoraggiato. Al tempo stesso la disponibilità dell’insegnante fa cogliere all’allievo l’importanza e la serietà dell’impegno argomentativo.

 

So per certo che questa insegnante, tornata a casa, parlò del suo problema con alcune amiche e ne discusse a lungo anche con suo marito. Era importante anzitutto chiarire il punto: non si trattava di mostrare che la scienza, almeno finora, non aveva falsificato la religione, ma che non avrebbe mai potuto né potrebbe mai farlo e questo perché scienza e religione, pur contribuendo ambedue, in quanto forme di conoscenza, alla nostra comprensione della realtà, lo fanno per aspetti diversi. In altre parole, scienza e religione hanno oggetti formali diversi e non possono dunque contraddirsi. Si trattava di esprimer tutto questo attraverso la categorialità dell’allievo. Ebbene proprio il riferimento agli infiniti perché dell’argomentazione nella sua primissima fase offrì in quell’occasione all’insegnante lo strumento categoriale adeguato. Al ritorno in classe si espresse grosso modo così:

La scienza e la religione ci servono a capire noi e la realtà in cui viviamo e capire significa saper dire perché. Ci sono dei perché a cui risponde la religione (perché esistiamo, perché non si  può uccidere?) e dei perché a cui risponde la scienza (perché d’inverno è più freddo? perché ci sono le maree?). Scienza e religione sono ambedue necessarie per capire la realtà e dare senso alla vita.

Naturalmente tutti in classe andarono a gara a portare esempi dei perché più svariati chiedendo se fossero perché scientifici o religiosi.

 

Ma veniamo ora al punto b): qual è il ruolo dell’adulto nell’apprendimento, cioè nell’acquisizione di conoscenza?

Insegnare non è un verbo causativo in senso stretto, non equivale a causare che un altro impari perché l’oggetto indiretto, cioè quest’altro, è un essere umano, dunque libero: perciò l’evento dell’apprendimento non può essere l’effetto scontato di nessun intervento dell’adulto. Inevitabilmente, quando l’insegnamento opera prescindendo dalla libertà, dall’interesse e dalla ragione dell’apprendente, esso può dare luogo solo a un addestramento, anzi, a una manipolazione.

Tutto questo, lungi dal rendere il ruolo dell’insegnante meno significativo, ne mostra tutta la grandezza. L’insegnante non causa apprendimento, non addestra, non è una catena di trasmissione di saperi costruiti e deliberati altrove, è un “cultore della materia”, ossia un soggetto appassionato a quella realtà che la sua disciplina si incarica di conoscere. Non si limita a consegnare un sapere acquisito, ma lo smonta e lo rimonta insieme al discepolo riverificandone le ragioni ed i nessi, continuamente interrogando la realtà a cui il sapere si riferisce per trarne un’esperienza più ricca. Mentre accompagno (tenendolo per mano = Handführung) il mio allievo nella realtà (totale!) anch’io rifaccio esperienza e rincontro quella realtà: non è possibile ripetere la stessa esperienza rileggendo lo stesso canto di Dante o ripercorrendo le mosse inferenziali dello stesso teorema insieme all’allievo. Il “gaudium de veritate”, legato nel primo caso alla partecipazione all’evento poetico e nel secondo alla profonda, intensa, gioia dell’inferenza, scaturisce da un nuovo avvenimento. Non sono solo io che accompagno lui nella realtà, anche lui accompagna me. La sua esperienza è una verifica della mia in quanto l’insegnamento non è esposizione di contenuti, ma sfida alla ragione e al cuore dell’allievo. In questo senso è argomentativo.







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