Giovedì 23 gennaio: è questo il giorno in cui il Parlamento si riunirà nuovamente in seduta comune per tentare di eleggere i quattro giudici della Corte costituzionale mancanti per ricostituire il plenum. Ieri la decisione dopo l’ennesima fumata nera di martedì, la tredicesima. Questione di nomi, ma non solo: parallelo al braccio di ferro in corso tra maggioranza e opposizioni, si sta svolgendo un altro scontro interno alla stessa coalizione di governo, sia pure avvolto da toni felpati e mediazioni di circostanza. Per l’elezione servono i tre quinti dei voti, ovvero 363 preferenze.
Lo schema sul tavolo per attribuire le quattro poltrone (che rappresentano circa un quarto dei 15 giudici costituzionali) ne assegna due alla maggioranza, una alla minoranza e la quarta a un tecnico. Su due profili ormai non c’è discussione: da un lato Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Palazzo Chigi e consulente per la riforma sul premierato, indicato da Fratelli d’Italia; dall’altro Massimo Luciani, professore ordinario di diritto pubblico alla Sapienza di Roma, proposto dal Pd. La Lega è fuori dal giro, mentre Forza Italia non scopre le carte: due sarebbero le ipotesi, cioè il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e il senatore Pierantonio Zanettin, ex membro del Csm. I 5 Stelle di Conte reclamano il quarto posto, che invece dovrebbe essere assegnato a un tecnico gradito al Quirinale e quindi condiviso da maggioranza e opposizione. Potrebbe essere un centrista ma anche una figura più legata al Colle e quindi spostata a sinistra. In questo caso la partita finirebbe con un salomonico 2-2 che sancirebbe di fatto una sconfitta del centrodestra.
Su questo fantomatico nome – che dovrebbe essere di una donna visto che gli altri tre sono uomini – non c’è accordo. A traccheggiare è in particolare FI, che spera di piazzare una giurista o un’avvocatessa di area moderata: l’ipotesi “super partes” (ma non troppo) di Antonio Tajani sarebbe Maria Elisabetta Alberti Casellati, ex presidente del Senato ma ora ministro delle Riforme e dunque non proprio una figura equidistante. Il Pd chiede un nome che non sia parlamentare né iscritto a un partito. Pronta a subentrare sarebbe Valeria Mastroiacovo, docente di diritto tributario all’Università di Foggia e segretario centrale dell’Unione giuristi cattolici. Tajani ha detto che prima si sceglie il “tecnico” di comune accordo, e poi FI comunicherà il secondo giudice spettante alla maggioranza.
Ma in questo duro confronto se ne inserisce un secondo, nel quale il ruolo di Forza Italia appare sotto una diversa luce. Per capirlo bisogna guardare il calendario della Consulta, nel quale lunedì prossimo, 20 gennaio, è segnato come l’ultima data utile per decidere sull’ammissibilità dei referendum abrogativi, compreso quello contro la legge sull’autonomia differenziata targata Lega. Il Parlamento però si riunirà solo il 23 per cercare di ricostituire il plenum della Corte costituzionale. Significa che quel giorno voteranno soltanto 11 giudici, il numero legale minimo. In maggioranza non appaiono favorevoli alla riforma autonomista, come dimostra la sentenza 192/2024 del 14 novembre scorso. Il loro pronunciamento – ancorché a ranghi ridotti – sarà legittimo. Cosa c’entra FI? C’entra, perché il rinvio al 23 potrebbe nascondere un modo mascherato per fare saltare la riforma Calderoli, mai digerita dagli eredi di Berlusconi. Forse addirittura con il silenzioso beneplacito di buona parte di FdI.
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