IL RICORDO/ Giorgio Pontiggia, il dono di un educatore di genio

- Luca Doninelli

LUCA DONINELLI ricorda don Giorgio Pontiggia, rettore dell'Istituto Sacro Cuore di Milano, a un anno dalla scomparsa

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“Voi non ci crederete – disse una volta a me e a qualche altro amico – ma quando, la mattina, io guardo in faccia i ragazzi che entrano, so già chi tra loro, quel giorno, farà una stupidaggine. Ce l’hanno scritto in faccia”. Per chi sa leggere tra le righe, il ritratto di don Giorgio potrebbe finire qui, perché dentro c’è già tutto. Ci sono la sua intelligenza, la sua passione, il suo struggimento per il bene dei ragazzi, la sua sospettosità (soprattutto nei riguardi degli insegnanti, ma non solo), la sua tendenza a vedere il negativo prima del positivo, il suo senso dell’obbedienza a un compito ricevuto, e molte altre cose.

Durante gli scrutini o i consigli di classe più importanti teneva sempre davanti a sé un faldone pieno di cartellette dedicate ciascuna a un ragazzo. In quelle cartellette c’erano svariate notizie sul loro andamento scolastico – tutte redatte dagli insegnanti – che comprendevano anche episodi particolari di cui il ragazzo (o la ragazza) era stato/a protagonista, frasi da lui (o da lei) dette in un certo contesto, appunti di conversazioni personali e, soprattutto, c’era la fotografia graffettata sulla prima pagina della cartelletta.

Se la foto mancava, si arrabbiava: “Come mai non c’è ancora la foto?” Don Giorgio non poteva parlare di un ragazzo senza avere davanti agli occhi la sua immagine fisica. Se non riusciva a ricordare la sua faccia, i dati raccolti sul suo conto non avevano senso: l’uomo è innanzitutto la sua faccia. Quei dati avevano senso perché riguardavano un volto, una fisionomia, un destino. Una volta fissato il volto, tutte le notizie sul conto del ragazzo, per quanto contraddittorie, servivano a precisare la sua immagine.

Tutte le volte che qualcuno di noi insegnanti cominciava a parlare di un ragazzo, dei suoi voti, del suo comportamento in classe, dell’andamento del suo trimestre, doveva tenere conto che don Giorgio ne sapeva, a proposito di quel ragazzo, molto più di lui. In questo modo, noi insegnanti arricchivamo il suo quadro, ma siccome era lui ad avere il quadro del ragazzo in esame, era poi lui a spiegare a noi il senso (o il non senso) delle nostre stesse osservazioni.

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Prima di diventare rettore del Sacro Cuore, don Giorgio era stato coadiutore della parrocchia di Santa Maria alla Fontana, non distante dal quartiere milanese dell’Isola. E alla Fontana, don Giorgio è stato il capo indiscusso della comunità parrocchiale di Comunione e Liberazione, anche lì con una specialità: l’educazione dei ragazzi. Nelle messe mattutine rimproverava le mamme dei ragazzi, così come avrebbe fatto anni dopo con noi professori del Sacro Cuore.

Fu alla Fontana che imparò cosa significa fissare dentro di sé l’immagine di qualcuno. “La prima volta che sono andato all’oratorio per fare catechismo ai bambini, ne ho visto uno che, pur di non venire a lezione, saltava giù dalla finestra”. In seguito, quel bambino è diventato uno dei suoi ragazzi più amati, all’università ha guidato per anni la comunità di Cl della Cattolica, ha preso due lauree, è diventato giornalista, ha fondato un proprio settimanale e oggi è un giornalista famoso.

“Ma per me – diceva don Giorgio – lui continua a essere il bambino che salta giù dalla finestra per non venire al catechismo. È il tipo di persone che mi sono istintivamente più simpatiche”. Tra l’altro, quel “bambino” è stato per qualche tempo incerto se fare o meno il giornalista, e avrebbe insegnato volentieri anche al Sacro Cuore. “In questa scuola finché ci sono io – mi disse don Giorgio – lui non metterà mai piede”. “Ma non è uno dei tuoi ragazzi preferiti?” “Certo. Ma un conto è la stima personale, un conto la fiducia che dai a un professore”.

Dopo di che, non tornò mai più sull’argomento. Al Sacro Cuore don Giorgio ha sempre usato questo metodo per conoscere le persone: guardarle da diversi punti di vista, accumulare dati e notizie fino a che scatta quell’immagine, qual flash che solo una lunga consuetudine rende possibile, e che riesce ad abbracciare una porzione più vasta della persona. È il metodo della certezza morale. Diceva: “Se io ti faccio ascoltare la Settima di Beethoven (una delle sue passioni) e tu l’hai sentita solo un’altra volta, farai un po’ fatica a riconoscerla. Se invece l’hai già sentita mille volte, ti basterà la prima nota”.

 

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 La dimestichezza che occorre con la musica, ci vuole anche con l’uomo. Questo non deve farci concludere che il suo problema sia stato quello di tenere le persone sotto controllo. Non dico che una certa tendenza al controllo e all’esercizio di un potere non ci fosse, però usare questo aspetto come chiave di lettura significherebbe non capire niente dell’uomo. Questo i ragazzi l’hanno sempre saputo.

I ragazzi, loro, ai quali don Giorgio ha dedicato tutta la propria vita, fino a sviluppare una certa incapacità, una certa goffaggine nei rapporti con le persone adulte (talvolta ho avuto l’impressione che in molti sedicenti “adulti” lui vedesse perlopiù dei mentitori, dei borghesi che avevano seppellito le loro domande fondamentali sotto una coltre di perbenismo e di quieto vivere). Per i ragazzi, don Giorgio era e resterà sempre una persona speciale, anche quando questi ragazzi saranno diventati nonni: DJ, Baviera, Pontiac, Magnifico Reattore sono alcuni tra i moltissimi nomignoli che gli sono stati appioppati.

Molti l’hanno adorato, altri l’hanno detestato, ma nessuno può negare che il rapporto con lui sia stato in qualche modo fondamentale, e che il contenuto di questo rapporto sia stato uno e uno solo: il loro stesso destino. Tutto il resto veniva in sottordine: andamento scolastico, rapporti familiari, problemi affettivi, e così via. Perfino la malattia e la morte. “Sono pochi – ripeteva – quelli che vogliono veramente bene ai ragazzi”.

Questa sua passione totale, divorante per il destino dei ragazzi è il dato fondamentale per capire don Giorgio. Come trasmettere loro la stima, l’amore e la tenerezza che Gesù Cristo nutre per ogni uomo? Don Giorgio tutte le mattine, alle otto meno un quarto, guardava bambini e ragazzi di tutte le età entrare in scuola: chi non voleva abbandonare la mano della mamma, chi se ne liberava con uno strappo, chi ti guardava con occhi di sfida, chi se ne stava incappucciato nella sua felpa con il walkman nelle orecchie e faceva finta di non vederti, chi ti diceva buongiorno per farsi notare da te e chi te lo diceva perché sperava davvero che quello fosse un buon giorno.

 

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Li guardava uno per uno e si chiedeva: che ne sarà di loro? Una mattina lo vedo furibondo: un ragazzino di prima superiore gli aveva appena detto che di tutte le “faccende religiose” a lui non importava un fico secco, tanto lui era lì solo per diplomarsi, perché dopo si sarebbe iscritto alla Bocconi, e una volta laureato avrebbe lavorato nell’azienda di suo papà e poi l’avrebbe sostituito. Non lo addolorava tanto che non gl’importasse della religione, ma che già a quindici anni concepisse la vita come un calcolo. “Cosa dici a uno così?” mi diceva, stringendomi le spalle.

 

Non ci sono risposte preconfezionate: o gli spacchi la faccia o accetti che sia così, confidando in Dio. Un’altra volta lo vedo ancora più furibondo: un altro ragazzino, anche lui di prima superiore, gli aveva detto che delle sue parole se ne fregava, perché don Giussani era amico della sua famiglia e parlava spesso con lui personalmente. “Usare don Giussani contro la sua stessa opera! È questo che gli insegnano i loro genitori?” C’erano molti ragazzi in grave difficoltà: chi era in crisi con la scuola, chi era stato provato da un dolore da cui non riusciva a risollevarsi, chi soffriva di depressione, chi era malato.

Spesso, alle sette, sette e mezza del mattino, don Giorgio telefonava a questi ragazzi mentre si alzavano e si vestivano e recitava con loro una preghiera: lì, al telefono. Che un ragazzo fosse o meno “bravo” a scuola, a lui non importava molto: l’educabilità di una persona, ripeteva sempre, il più delle volte passa attraverso le sue difficoltà. Essere “bravi” è spesso un modo di evitare il rapporto.

 

Questo non significa che non fosse sensibile al fascino dell’intelligenza, questa meravigliosa dote che non sempre ti è utile per salvarti l’anima, ma in compenso ti fa risparmiare un sacco di tempo. L’intelligenza (che spesso non ha nulla a che vedere col rendimento scolastico) è la più bella tra le doti secondarie dell’uomo.

 

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È sempre la necessità, è sempre il bisogno, e non l’intelligenza, ad arrivare per primo al nocciolo delle questioni; ma la vera intelligenza tien subito dietro, accende il desiderio di imitazione, sa guardare dove è necessario guardare.

 

Don Giorgio è stato, questo lo riconoscono tutti, un educatore di genio, e la sua genialità sta soprattutto nella forza con cui ha saputo tenere in pugno il principio primo dell’educazione in atto di un giovane, e cioè che “ogni educazione è un’educazione completamente sbagliata” (come disse lo scrittore Thomas Bernhard) se non riesce a trasmettere una ragione per cui la vita – tutta la vita! – valga la pena di essere vissuta. Il cristianesimo suggerisce all’uomo questa ragione decisiva.

Vivere l’antropologia cristiana nel concreto delle cose quotidiane, da quelle che ci toccano per forza a quelle che possiamo scegliere, è il senso del cammino educativo, ossia di quell’accompagnamento (proprio come quello musicale, che adorna il canto) con cui possiamo aiutare una persona a compiere il cammino cominciato con la nascita, con il seno materno, e che deve condurre alla piena, libera responsabilità dell’uomo adulto.





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