DIBATTITO/ Perché gli “indicatori” della felicità falliscono?

- Giovanni Maddalena

Nel suo discorso alla Biennale della democrazia (Torino, 10-14 aprile) Gustavo Zagrebelsky ha parlato sul tema: "Pensare può alleviare l’infelicità della vita?". GIOVANNI MADDALENA

gustavo_zagrebelsky_1R439 Gustavo Zagrebelsky (Infophoto)

La felicità senza dubbio è uno dei temi più affascinanti per ogni essere umano e da ogni punto di vista. Così interessante che si ha un certo pudore a parlarne sul serio, almeno nella vecchia scettica Europa. L’articolo di Zagrebelsky su Repubblica di mercoledì 10 aprile (il quotidiano ha anticipato la lezione che l’autore ha tenuto alla Biennale della democrazia il giorno successivo, ndr) ha il merito di mettere a tema la felicità senza vergognarsi di riconoscerne peso e profondità.

Zagrebelsky critica le misurazioni statistiche della felicità (qualità di vita, benessere equo solidale ecc.) per esaltare la produzione di idee come fattore significativamente non rilevato di tali misurazioni. Per Zagrebelsky questa assenza del valore “idee” significa che siamo in un’era materialista che alla fine intontisce gli esseri umani privandoli di criticità.

Il tema è serio anche per me e anche a me non piacciono queste misurazioni. Ma per motivi diversi, che coinvolgono anche la proposta o il rammarico di Zagrebelsky.

Perché queste misure lasciano il tempo che trovano? Sono curiose e mettono in luce fattori a cui non avremmo pensato – le leggiamo volentieri e ne parliamo volentieri –, ma nessuno le considera un conteggio rilevante, almeno nel “proprio” caso. Ne parliamo volentieri proprio perché sappiamo che in fondo non sta lì la felicità. Come mai? Che cosa c’è in gioco nella felicità che merita il pudore e che la isola in fondo, come valore assoluto, da tutti questi computi?

Il problema di tutte queste misurazioni è che intendono la felicità come un possesso o una combinazione di possessi di vario genere. Invece l’esperienza comune “sa” che la felicità “accade”: la gioia è sempre un surplus inatteso, tanto è vero che si può essere vuoti o infelici anche quando capita proprio quello che vogliamo o per cui abbiamo lavorato. L’esempio più eclatante di questa “alterità” della felicità è il capovolgimento totale, quello che Tolkien definiva l’eucatastrofe: la gioia massima insorge quando le cose sembrano condannate a finire del tutto male e, invece, finiscono improvvisamente bene.

Noi possiamo impegnarci, lavorarci, pensarci, ma la felicità non sembra seguire una logica deduttiva o puramente compensativa. Come diceva Camus della grandezza: «Non è a forza di scrupoli che un uomo diventerà grande. La grandezza arriva, a Dio piacendo, come un bel giorno». Come il bel giorno, la felicità accade come corrispondenza a un desiderio profondo, che di solito vive dentro tutti quelli superficiali, che non possono essere disprezzati perché proprio essi, con il loro continuo rinascere, sono il segno di questo essere fatti per qualcosa di inesauribile. Ricordando questo desiderio che emerge dentro tutti i nostri desideri comuni, banali e carnali, Agostino rintracciava nel desiderio della felicità la memoria indelebile di un rapporto con Qualcosa o Qualcuno che non siamo noi. La felicità è un rapporto e non un possesso.

Per questo, il possesso o la produzione delle idee è un quantificatore sbagliato quanto quelli materialisti e lascia lo stesso gusto di pura curiosità, a meno che non lasci il gusto della superiorità degli intellettuali sul popolo che non può elevarsi all’altezza di piaceri eterei. In realtà, anche dal punto di vista cognitivo, dire che le idee sono “nostre” è una presunzione. Il linguaggio comune esprime l’esperienza della creatività dicendo che ci è “venuta un’idea”. Infatti, noi facciamo parte di una rete di relazioni ed esperienze dotate di significato e non è un caso che una certa idea sia “nell’aria” prima che il suo cosiddetto “autore” la scopra o la esprima. Certo, c’è un autore, ma il suo ruolo si limita ad accettare (assentire a) e riformulare ciò che riceve. Una cosa del tutto nuova del resto, sarebbe semplicemente incomprensibile. 

Tolkien esprimeva questo legame intrinseco che dà forma alla nostra creatività dicendo che noi siamo “sub-creatori”: riceviamo la realtà e i suoi significati e possiamo accettarli o rifiutarli, modificarli o lasciarli inalterati ma mai produrli dal nulla, che sarebbe il solo vero “possesso” quantificabile. Un possesso che, anche quando si fissi su idee elevate, rimane cieco sulla condizione allo stesso tempo fragile e feconda – e feconda perché fragile –  della mente umana. Una presunzione che ironicamente Shakespeare sferzava:

[…] uomo orgoglioso, ammantato di breve autorità
sommamente ignorante di ciò che, invece, è più sicuro:
la sua essenza di vetro
[…]

(Misura per Misura)





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