SCUOLA/ Ichino: abolire il valore legale? A 3 condizioni
Il governo ha aperto una consultazione pubblica sull’abolizione del valore legale del titolo di studio. Che cosa si tratta di abolire in realtà, è perché? La proposta di ANDREA ICHINO
La consultazione pubblica sul valore legale del titolo di studio è cominciata, e secondo dati del Miur, riportati ieri dal Corriere della Sera, avrebbe già fatto segnare più di 20mila partecipazioni. Il tema è difficile, se ne parla in Italia da 50 anni, almeno da quando Luigi Einaudi, in quella che Sabino Cassese ha chiamato la«filippica» del padre costituente, rivolse i suoi strali contro quella parificazione artificiosa tra riconoscimento della validità di un titolo di studio da parte dello Stato, e il valore «reale» agli occhi del mercato. Infatti, tra la medesima laurea conseguita presso atenei diversi, come tutti sanno, può esserci un abisso. Per poter accedere ad un concorso pubblico, però, i due titoli pari sono. Potere sovrano del famoso «pezzo di carta».
Che affrontare il dilemma non sia facile, lo sanno anche al ministero di Francesco Profumo. Per inquadrarlo si sono affidati al Servizio studi del Senato della Repubblica, che nel 2011 così ha definito il nodo «valore legale»: «un istituto giuridico che va “desunto dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico”». Detto questo, cari cittadini – sembrano dire al Miur – armatevi di codice fiscale, rispondete alle domande e dite la vostra.
lsussidiario.net ne ha parlato con Andrea Ichino, economista, autore con Daniele Terlizzese (Eief) di una proposta di «autofinanziamento» dell’università che affronta anche – ridimensionandolo – il problema del valore del titolo. Tutto si tiene, dunque. Ma partiamo dalla consultazione. «Non so perché il governo abbia scelto questa strada» dice Ichino. «Il tema è ostico, nebuloso: si pensa che eliminare il valore legale voglia dire rinunciare ad ogni forma di accreditamento: non è così. Non è vero che abolendo il valore legale, chi ha fatto architettura può improvvisarsi dentista. Questa è disinformazione».
Professore, lei è favorevole all’abolizione del valore legale del titolo. Nello stesso tempo ha elaborato un’ipotesi di riforma del sistema universitario che fa leva sui prestiti agli studenti. Perché?
Sappiamo bene che quelle lauree non si equivalgono.
Certo. Infatti, opzioni identiche vanificano la necessità e i benefici di una scelta. Ma se gli studenti sono indotti dallo Stato a pensare che siano identiche, non hanno incentivo a scegliere e quindi non mettono nemmeno in moto quella pressione concorrenziale che dovrebbe spingere le università a miglorarsi. E questo va soprattutto a danno delle famiglie meno abbienti, i cui figli sono illusi dallo Stato riguardo alla reale qualità dei titoli che hanno conseguito. Da questo punto di vista, meglio consentire alle università di differenziarsi nell’offerta formativa, in piena autonomia e con la possibilità di aumentare le tasse universitarie per finanziarsi. E, al tempo stesso, offrire agli studenti prestiti condizionati al reddito (attenzione: non prestiti tradizionali, ma “borse di studio restituibili”, si vedano i dettagli nella nostra proposta) che consentano loro di scegliere l’università che ritengono migliore. Questa combinazione di proposte creerebbe le condizioni per un’autentica possibilità di scelta.
Ma il valore legale del titolo che cosa c’entra?
Andiamo a vedere dal lato dell’offerta. Di fatto esistono lauree di serie A e lauree di serie B. Che cosa non ha funzionato?
«Debba», lei dice. Perché?
Lei ha parlato di contrattazione aziendale, ma il privato sa benissimo quanto valgono le lauree. E infatti la consultazione del governo non intende riguardare – testualmente – «il tema della rilevanza del titolo di studio per l’accesso all’impiego privato».
Vero: le aziende sanno quanto valgono realmente i titoli e nel privato il problema è di molto inferiore. Ma se lo Stato dà il messaggio che le lauree universitarie sono tutte uguali, allora stiamo imbrogliando gli studenti. O i titoli hanno realmente uguale valore – e allora sbaglia il mercato –, oppure uguale valore non ce l’hanno affatto, e allora sbaglia lo Stato dando ad essi lo stesso valore nei concorsi pubblici, e facendo credere alle famiglie e agli studenti che frequentano università di minor valore che la loro laurea valga quanto quelle delle università migliori. Poiché non è così, dev’essere il mercato a decidere, al meno al di sopra di una soglia minima.
Dunque, abolizione del valore legale. È questa la soluzione?
Se la sua proposta è ammissibile per l’università, ragioni culturali ben note impediscono di formularla per le scuole, per le quali sarebbe un tabù.
Ora è lo Stato a dire: il corso di studi dev’essere fatto così, ed è lo Stato a rappresentare la garanzia del valore legale del titolo.
Avanti allora con certificazione e accreditamento dei livelli minimi. A che punto siamo?
Cosa pensa della consultazione avviata dal governo?
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