SCUOLA/ Usare la ragione? Una “strana” forma di obbedienza

- Emanuele Maffi

Con la Lezione accademica introduttiva tenuta da Costantino Esposito il 7 novembre ha avuto ufficialmente inizio la prima edizione delle "Romanae disputationes". EMANUELE MAFFI

leonardo_uomovitruviano2R439 Leonardo Da Vinci, Uomo vitruviano, particolare (1490)

Con la Lezione accademica introduttiva tenuta da Costantino Esposito il 7 novembre ha avuto ufficialmente inizio la prima edizione delle Romanae disputationes, concorso nazionale di filosofia per studenti liceali organizzato e coordinato dall’associazione ToKalOn didattica per le eccellenze, in collaborazione con Diesse, gli istituti Luigi Sturzo e Sant’Orsola di Roma, l’Istituto Malpighi di Bologna e la casa editrice Loescher di Torino. L’iniziativa è rivolta a tutti gli studenti del trienno liceale e le iscrizioni al concorso sono aperte fino a venerdì 22 novembre.  Per quanto riguarda le modalità di adesione tutti i dettagli sono disponibili sui siti di ToKalOn e di Diesse

Costantino Esposito ha “sfidato” ben 1300 studenti liceali, tra quelli presenti in sala e quelli collegati in web conference da molte parti d’Italia, sul titolo stesso del concorso Sapere Aude! Natura e possibilità della ragione umana, ricordando fin dall’inizio quanto sia elevata la posta in gioco dentro questa sfida: la scoperta personale dell’avventura del pensiero quale unica strada per poter verificare insieme la forza della ragione. 

Chi ha lanciato questa sfida con grande e drammatica consapevolezza, afferma Esposito, è stato Immanuel Kant che in un articolo dal titolo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? così ha scritto: “l’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’illuminismo”. 

Questo passo kantiano è la chiave di apertura del problema sulla natura della ragione umana: la ragione umana è una competenza personale, perché, sottolinea Esposito, ciascuno di noi ce l’ha in carico. La ragione è una facoltà che non ci possiamo scrollare di dosso e ci chiede di essere esercitata liberamente. Ecco allora il grande invito di Kant, invito a cui nessuno può sottrarsi, riecheggiare in tutta la sua potenza: abbiamo davvero il coraggio di servirci della nostra intelligenza senza delegare ad altri (ossia a chi determina le mode e i modelli culturali) il compito di ragionare per noi? Sapere Aude! significa quindi scoprire nella nostra esperienza umana che cos’è la ragione, o detto altrimenti, verificare personalmente la natura e le possibilità della nostra facoltà razionale.

In prima luogo questo coraggio non è una forma di eroismo solitario, ma è, così lo chiama Esposito, una “strana forma di obbedienza”. Avere il coraggio di rischiare in proprio la ragione significa allora non censurare il dinamismo della ragione ma seguirne fino in fondo le sue esigenze. Questo dinamismo appartiene alla natura della ragione e non può essere una nostra attività arbitraria: la ragione vuole capire come stanno le cose e per capirle deve seguire le cose stesse. 

Si è così davanti ad un paradosso: avere il coraggio di usare liberamente la propria intelligenza significa essere disponibili a seguire l’itinerario della ragione, la quale non si ferma mai perché tende al senso ultimo della realtà. Proprio perché la ragione non ne è l’autrice, essa non può bloccare il suo dinamismo: la ragione non può fermarsi finché non arriva a intravvedere la totalità. 

Questo coraggio ad usare la ragione implica anche un secondo aspetto, ossia la disponibilità a lasciarci toccare dai dati della realtà. Questo fatto, precisa Esposito, sembra essere la cosa più scontata del mondo poiché in ogni istante crediamo di essere in contatto con la realtà; ma qui non si tratta di una disponibilità superficiale bensì di una disponibilità profonda ed attenta, quella di rispondere alla richiesta di senso e significato che emerge dalle cose stesse. Saper Aude!, decidere di usare la propria intelligenza è perciò possibile solo se si riconosce nell’esperienza che la ragione non è una facoltà astratta, ma un lavoro, un’avventura e un impegno. La nostra ragione, in sintesi, è il nostro modo di essere al mondo, ed è un lavoro impegnativo perché implica sempre la fatica della coscienza e del significato della conoscenza. Ma non vi è per l’uomo fatica più bella di questa: la nostra ragione è a tal punto sete di significato che cercare questo significato è l’avventura più impegnativa, coraggiosa e bella che l’uomo possa vivere.

Così la filosofia ha lo strano compito di imparare a porre le domande ed è, in quanto rigoroso sapere tecnico, il tentativo sistematico, a livello di concetti e di metodi, di capire quale sia la domanda che la realtà ci costringe a porre per coglierne il significato. Porre le domande è perciò il primo grande gesto di obbedienza alla realtà e il primo grande compito del filosofo. Dunque avere il coraggio di usare la propria ragione autonomamente è, in una parola, avere il coraggio della verità: una parola “urticante”, così la definisce Esposito, perché troppo impegnativa, una parola che mette quasi paura, perché sembra che chi voglia la verità sia disposto a perdere la libertà, a rinunciare alla ricerca. Ma qui, almeno a livello di ipotesi, occorre considerare la verità non tanto come una serie di dottrine che forniscono la soluzione delle cose ma piuttosto verificare la possibilità che la verità coincida con l’apertura della nostra ragione di fronte alla realtà. Ecco chiarirsi l’opzione che Esposito invita a mettere alla prova: più che costruire noi la verità, noi stiamo già sempre nella verità, essa è come lo spazio aperto in cui l’uomo dotato di ragione si chiede il perché delle cose, spinto dall’insopprimibile bisogno di saper come esse veramente stanno. 

In questa prospettiva ben si capisce perché, per chi si occupa di filosofia, sia necessario “frequentare” oggi i grandi filosofi: essi sono grandi perché hanno sperimentato che cosa voglia veramente dire domandare, perché sono i testimoni di quest’avventura della ragione. Che cosa si impara oggi leggendo un dialogo di Platone o un’opera di Agostino o di Heidegger? Prima ancora che l’accordo con le loro dottrine, accordo che potrebbe non esserci mai, si impara la serietà e la radicalità del loro domandare. Se apro un dialogo con un grande filosofo quando l’interesse della mia ragione è vivace, allora i problemi e le domande di quell’autore tornano ad essere posti nella loro drammaticità. La ragione umana consiste, parafrasando Heidegger, nell’insistenza del domandare.

Nella seconda parte della sua lezione Costantino Esposito non si è sottratto al compito di offrire alcuni significativi “frammenti”, come lui li ha definiti, di questi testimoni dell’avventura della ragione. Qui ne saranno ripercorse in estrema sintesi le tappe così da fornirne un indice che vuole costituire un invito a leggere questa ricca lezione nella sua interezza.

Il primo compagno di viaggio introdotto è il Platone della VII Lettera, un testo “autobiografico” in cui Platone confida ai parenti del suo amico Dione in che cosa consista il lavoro filosofico. Tra le raccomandazioni che Platone fa al giovane (e aspirante filosofo) tiranno di Siracusa ce n’è una particolarmente importante, quella cioè “di farsi tra i suoi familiari e tra i suoi coetanei altri amici fedeli, concordi con lui nell’amore della virtù ma soprattutto di essere amico lui stesso di sé medesimo, cosa di cui egli aveva grandissimo bisogno”. Che significato ha, domanda Esposito, l’invito platonico a “essere amici di se stessi”? Non significa semplicemente accettarsi su un piano psicologico; l’essere amici di se stessi ha un valore epistemologico: per esercitare la filosofia in quanto conoscenza di sé e del mondo bisogna obbedire alla ragione. Viceversa siamo nemici di noi stessi quando soffochiamo e interrompiamo la ricerca al vero della ragione: questa ricerca del vero è, per Platone, l’amore alla virtù, cioè la principale forma di lealtà con se stessi. E seguire la ricerca della ragione conduce alla scoperta della nostra “natura divina”, ossia, fuori dal linguaggio platonico, alla scoperta che la nostra natura umana è molto di più di quello che immaginiamo che sia, perché nell’esercizio della ragione l’uomo non si accontenta di niente di meno che della totalità. Emblematica in questo senso è l’ostinata ricerca del Bello in sé perseguita da Socrate nel Simposio. La bellezza delle persone e del mondo, spiega Esposito, non solo attrae e soddisfa ma apre e spalanca l’orizzonte della natura umana: la fruizione della bellezza non sazia la sete della ragione ma le chiede di domandare ancora, finché non giunge a riconoscere che la soddisfa completamente solo il Bello in sé. Incontrare Platone significa incontrare in atto la dinamica propria della ragione: andare fino alla sorgente di quella esperienza concretissima di bellezza che ogni uomo sperimenta.

Un altro compagno di viaggio citato da Esposito è l’Aristotele del primo libro della Metafisica. La meraviglia da cui nasce la filosofia non è un semplice stato di ignoranza che verrà superato dall’uomo quando egli arriverà al culmine della sua conoscenza scientifica, così, ricorda Esposito, sembra intenderla un altro grande filosofo dell’età moderna, Baruch Spinoza. La meraviglia è la dimensione della filosofia, quello stupore di fronte all’essere nella sua totalità e interezza che non cessa mai nemmeno quando l’uomo penetra sempre più a fondo nella conoscenza di esso. 

Perché l’uomo approfondisca la conoscenza dell’essere e del mondo, perché l’uomo ne colga la struttura armonica e ordinata occorre quella che il grande Agostino di Ippona nel decimo libro delle Confessioni chiama una iudex ratio, cioè una ragione che giudica la realtà perché la sa interrogare, pone alla realtà quelle domande che la realtà stessa invita l’uomo a porsi. Attraverso la testimonianza di Agostino emerge così un altro aspetto della ragione umana: essa è relazione, rapporto con qualcosa che mi colpisce e mi obbliga a chiederne il perché. In questa relazione costitutiva con qualcosa che è altro da sé consiste la natura della ragione, la sua capacità di aprirsi alla realtà che costantemente la interpella. 

Questa natura relazionale della ragione è ben documenta anche dal padre della filosofia moderna, René Descartes. L’ “estremo desiderio” che spinge Cartesio alla ricerca del vero lo conduce a riconoscere che anche in ciò che considero la realtà che più di ogni altra mi appartiene, cioè i miei pensieri, non posso non attestare che c’è una idea, quella di un essere Infinito, che è più grande di me e che non posso aver prodotto io. Per quanto la ragione sia un’attività misuratrice e calcolatrice, quando si esamina, scopre in sé la traccia di un’alterità che la costringe ad aprirsi: la ragione, nota Esposito, è sempre in qualche misura “sfondata”. 

Questa apertura originaria della ragione emerge con chiarezza anche nella prima Prefazione alla Critica della ragion pura di Kant. L’imbarazzo in cui cade la ragione umana quando non è in grado di rispondere a quelle domande sulla natura dell’anima, del mondo e di Dio che pure la tormentano, è il segno più evidente che queste domande sono la sua stoffa stessa: la ragione umana è una domanda aperta su ciò che Kant chiama l’incondizionato. 

Tuttavia questa tensione costitutiva della ragione può, pur venendo riconosciuta, essere ostinatamente negata, anche se questa negazione, aggiunge Esposito, può essere avvertita come “una incurabile ferita”. È il caso di Ludwig Wittgenstein che nel Tractatus logico-philophicus ascrive solo alla scienza la capacità di formulare proposizioni sensate, cioè affermazioni espresse con un linguaggio empiricamente verificabile; di conseguenza, una volta identificato ciò che possiede senso con il linguaggio logico-scientifico e con le sue formalizzazioni deduttive, le questioni della filosofia sono destinate ad essere irrimediabilmente insensate. 

Ma questa conclusione è sentita da Wittgenstein più che come un successo come una cocente sconfitta: “noi sentiamo che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiamo avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure sfiorati. Certo, allora non resta più alcuna domanda; e appunto questa è la risposta”. Wittgenstein, commenta Esposito, condanna le domande vitali a essere insensate, ma ne avverte inevitabilmente lo scarto. “Perciò – conclude Wittgenstein – colui che mi comprende infine riconosce che queste domande filosofiche sono insensate, egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa”. Questa immagine, che Esposito definisce una delle più drammatiche del pensiero occidentale, rappresenta la cancellazione di ogni tentativo di risposta a quei problemi vitali che sono le questioni insensate della filosofia. Ma nel rifiutare queste domande Wittgenstein tradisce il fatto che queste domande sono ciò che caratterizza la vita dell’uomo. 

L’ultimo compagno di viaggio nell’avventura del pensiero citato da Esposito è Martin Heidegger. In una conferenza del 1953 che si intitola Scienza e meditazione Heidegger afferma che noi siamo così totalmente condizionati dalla scienza intesa come il voler misurare, il porre misura al mondo da parte dell’uomo, da non renderci conto che dentro la scienza c’è qualcosa di cui noi non ci accorgiamo ma senza la quale neanche la scienza funzionerebbe; perché mentre la scienza calcola, misura rigorosamente il dato che le sembra quello più ovvio di tutti, cioè il mondo, la filosofia è il regno dell’inutile. Dove con “inutile”, sottolinea Esposito, Heidegger intende qualcosa di grande, cioè di gratuito. Ma “gratuito” può avere una doppia accezione. “Gratuito” può significare assurdo e insensato à la Wittegenstein: ciò che non ha senso ma che c’è senza un senso, perché è troppo grande perché l’uomo possa afferrarlo. Ma “gratuito” significa anche gratis, una donazione che non è l’esito di una nostra deduzione o strategia mentale. Nel calcolabile c’è qualcosa che non possiamo calcolare ma che dobbiamo riconoscere perché è come un enigma, una presenza misteriosa che mi si dà: alla base della fisica c’è qualcosa di originario e sempre già dato, la natura. Se non capiamo come la realtà si manifesta a noi, sembra dire Heidegger, noi, nel tempo, non saremo più in grado nemmeno di misurarla. 

Ecco allora il punto di fascino e, al contempo, il problema della filosofia: che ciò che ci sembra già di sapere possa tornare ad essere una scoperta. 

La provocazione lanciata da Esposito in maniera così affascinante aspetta ora di essere raccolta e investigata dai partecipanti al concorso. E allora, buon lavoro a tutti, la sfida è iniziata. 





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