SCUOLA/ Se Renzi e Confindustria “dimenticano” il (vero) senso del lavoro

- Luciano Clementini

I 100 punti sulla scuola di Confindustria sono ricche di proposte interessanti, anche se non tutte condivisibili. Ma il concetto di lavoro ha un deficit culturale. LUCIANO CLEMENTINI

squinzi_sinistraR439 Giorgio Squinzi (Infophoto)

Le 100 proposte sulla scuola di domani, che Confindustria ha presentato il 7 ottobre scorso alla Luiss di Roma, partono dalla constatazione che «la scuola oggi è un’istituzione delle differenze, paradigma della lotteria che il cittadino italiano gioca spesso con il mondo pubblico, scuola e sanità in primis. Il sistema di istruzione in Italia non è più la leva perequativa che livella le differenze e mobilita le migliori risorse. Al contrario è diventato motore di divaricazione delle opportunità». Un’affermazione piuttosto forte, ma di certo ben evocativa della situazione generale dell’istruzione nel nostro Paese. 

Di qui l’offerta di «un contributo per cucire in una visione di respiro ampio tante pezze di diversa foggia e colore», una «assoluta necessità» che si percepisce «viaggiando nel mondo dell’istruzione» italiana, dove «quest’attesa si vive anche con rabbia, ma sempre con grande disponibilità a innovare». E dove, per contro, si ha la «netta sensazione che un’istituzione generatrice dei necessari mutamenti strutturali della società contemporanea, sia stata per troppo tempo ai margini dell’interesse sostanziale della politica». Ma c’è anche il riconoscimento che «con la “Buona scuola” il Governo ha presentato dopo molti anni una proposta che ha molti contenuti innovativi»; un punto di incontro, per discutere, per cambiare con una spinta dal basso di una società in perenne mutamento.

100 proposte per «incrociare governo e territorio, con il trade-off tra gli standard nazionali e le necessarie autonomie» da un lato, e «la relazione da costruire tra saperi e loro applicazioni, tra competenze e loro espressione sociale, come questione chiave del rinnovamento del modello educativo italiano».

100 proposte, alcune minimali e altre di ampio respiro, in parte condivisibili; come quella di riqualificare il Miur concentrandolo su «funzioni d’indirizzo, controllo e valutazione» e riconoscere alle scuole «oltre all’autonomia didattica, la possibilità di scegliere organico ed insegnanti», chiedendo nel contempo maggiore trasparenza amministrativa e responsabilità sui risultati raggiunti. Come però nel documento del Governo, anche qui l’idea di fondo sottesa all’autonomia delle scuole rimane ancora dentro la logica della funzionalità, mentre una trasformazione in chiave davvero sussidiaria del sistema scuola è ancora concettualmente lontana. Ci vorrebbe un passo in più. Ad esempio, perché Confindustria propone di dare «completa autonomia all’università» e di «ampliare l’autonomia delle Fondazioni ITS», ma non ipotizza analoghe strutture di autonomia piena per tutte le scuole secondarie di II grado, licei compresi?

Realistico l’approccio al rapporto tra scuola e mondo del lavoro, che Confindustria fotografa così: finora si è trattato di «un percorso tormentato, fitto di pregiudiziali che hanno ridotto la contaminazione virtuosa tra sapere e lavoro»; mai approdato ad una pratica stabile, diversamente da quanto accade all’estero, dove la pratica sistematica dell’apprendere-facendo è divenuta regola. Bisogna rendersi conto — dice Confindustria — che l’idea del “prima si studia, poi si lavora” ha fatto il suo tempo, mentre oggi è diventato vitale offrire ai nostri giovani la possibilità di “imparare lavorando”; lo si può fare attraverso percorsi in «alternanza, stage, tirocini obbligatori pre-laurea, apprendistato, …riconoscendo competenze e qualificazioni acquisite sul lavoro, in Italia o all’estero come crediti formativi».

Al lavoro si deve guardare come «un’occasione per sperimentare metodologie di apprendimento attive e interdisciplinari», nell’ottica dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Perciò Confindustria propone di introdurre «l’alternanza scuola-lavoro a tutti i livelli, rendendola obbligatoria negli ultimi 3 anni degli Istituti Tecnici ed estenderla di un anno negli Istituti Professionali innalzando il monte ore dedicato a 600 ore da distribuire nel triennio». E suggerisce anche di semplificare l’apprendistato, incentivare gli imprenditori che investono in formazione, promuovere maggiore reciprocità e collaborazione tra scuola e impresa, sia a livello secondario che terziario degli studi. In sostanza, chiede di «potenziare gli indirizzi più rispondenti alle priorità del Paese e alle vocazioni produttive territoriali», collegando la formazione con le politiche d’inserimento lavorativo in modo da garantire «alti livelli di occupazione per i giovani»

Secondo Confindustria ciò si ottiene attraverso l’impostazione di programmi di apprendimento basati su «chiari indicatori di performance concordati con le imprese». Per sostenere questo percorso propone un grande “Piano di orientamento Nazionale attivo” che, fin dalle «scuole elementari», riservi obbligatoriamente un certo numero di ore alla illustrazione dei percorsi formativi così identificati — con particolare riferimento a quelli tecnico-scientifici — e dei successivi sbocchi professionali nel mondo del lavoro. Accanto, «un Piano Nazionale di comunicazione che presenti lo stretto collegamento tra scuola e sviluppo economico, sbocchi e prospettive professionali»

Non molto diversa l’impostazione del documento governativo sul rapporto scuola-lavoro quanto ad analisi (grave disallineamento tra formazione e occupabilità), finalizzazione dei percorsi (orientamento per l’occupazione), metodologia di approccio (le varie tipologie dei percorsi) e proposte operative (perfino lo stesso numero di ore obbligatorie di alternanza, 600, per Tecnici e Professionali; con i licei sempre inspiegabilmente fuori…). Diversa la strategia, laddove è la scuola a chiedere alle imprese interventi in termini di risorse strumentali e finanziamenti. Per entrambi, l’apprendimento, attraverso stage e tirocini piuttosto che in alternanza, è visto in modo strumentale: la scuola interpella il mondo del lavoro per la sua capacità di “far fare esperienza”, o al più di fornire “orientamento”; l’impresa si rivolge alla scuola per conquistare spazi in termini formativi e di indirizzo. Entrambi perseguono la costruzione di percorsi volti ad aumentare la riuscita sul piano occupazionale delle giovani generazioni, ma si limitano a questo pur condivisibile obiettivo.

 Fondamentale che nel rapporto col mondo del lavoro la scuola possa giocare un’autonomia vera, sia nella progettazione che nella conduzione dei percorsi. Ma c’è un aspetto più profondo ed essenziale, spesso sottovalutato se non addirittura ignorato da entrambe le parti: la cultura del mondo del lavoro ha una profonda valenza educativa, capace di trasformare l’apprendimento degli allievi e risvegliare le loro speranze per il futuro. Riconoscere e sostenere questo livello di coscienza da parte dei due “attori” costituisce la reale garanzia di riuscita per qualunque percorso venga avviato.





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