GOVERNO M5S-LEGA/ Salvini a un bivio, Di Maio pigliatutto

- int. Peppino Caldarola

La candidatura di Giuseppe Conte, Di Maio e Salvini ancora in trattativa, le decisioni di Mattarella, l'agibilità di Berlusconi sono i paletti della crisi. PEPPINO CALDAROLA

sergio_mattarella_15_lapresse_2018 Sergio Mattarella (Lapresse)

Il nome di Giuseppe Conte è sopravvissuto alle consultazioni di lunedì e formalmente non è stato escluso dalla corsa per Palazzo Chigi. Il professore, ordinario di diritto privato nell’Università di Firenze, avvocato cassazionista, faceva parte della prima squadra di governo a 5 Stelle, quella spedita via mail al Quirinale nel lontano febbraio scorso ed evaporata dopo il 4 marzo. La sua candidatura, l’entusiasmo di Di Maio per il traguardo a portata di mano, il freno di Salvini che evoca il possibile ritorno al voto in assenza di progressi al tavolo tecnico e, non da ultimo, la rinnovata eleggibilità di Berlusconi, lasciano nella più completa incertezza il quadro politico, dice Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità

Martina ha invitato M5s e Lega a prendere atto del fallimento, Delrio ha suggerito ai partiti di considerare la proposta tecnica di Mattarella. Se Conte fosse il candidato premier di un governo del presidente? 

Qualsiasi personalità venga indicata da Mattarella, il Pd la vota.

Conte non potrebbe però essere il candidato di Mattarella, Di Maio e piacere anche al Pd.

Troppe condizioni nello stesso tempo. Come candidato di Di Maio non avrebbe i voti del Pd e sappiamo perché. Ma se tra Lega e M5s saltasse l’accordo, il discorso cambierebbe.

Come andrà a finire il tavolo Lega-M5s?

A mio modo di vedere ci sono due ipotesi. La prima è quella di un accordo di governo che viene concluso pur di non dichiarare fallita la trattativa. Uno scenario evidentemente penalizzante per Salvini, ma alla fine anche per Di Maio.

E perché?

Perché alla fine della trattativa c’è comunque la fine della sua carriera politica.

Non come premier però.

No, escludo che Salvini gli faccia questo regalo. Non si capirebbe perché gli dovrebbe dire di sì adesso dopo avergli detto di no per ottanta giorni.

E la seconda ipotesi?

E’ che Salvini, nonostante tutte le buone intenzioni, ritenga inaffidabile il M5s, temendo che i 5 Stelle, dentro il parlamento o per iniziativa di qualcun altro, da Casaleggio al Fatto Quotidiano, un giorno o l’altro gli possano presentare un conto troppo salato da pagare.

Vale a dire?

Proposte di legge non previste nell’accordo, che metterebbero Salvini in difficoltà con quell’alleanza di centrodestra a capo della quale lui vuole restare. 

A proposito di centrodestra. Berlusconi è eleggibile e di fatto è di nuovo in campo.

Il suo appeal elettorale non è più quello di prima, ma è ancora significativo. Certo sarebbe molto difficile per Salvini fare lo junior partner di Di Maio nel momento in cui nel centrodestra dovessero aumentare l’irritazione della Meloni e il consenso di Berlusconi. 

E le pressioni europee? Ieri sono intervenuti Dombrovskis, Avramopoulos e Katainen di fatto intimando all’Italia di non cambiare politica su immigrazione, patto di stabilità e conti pubblici.

Un errore politico, perché così facendo hanno rinsaldato il patto tra M5s e Lega, e offerto a Salvini la possibilità di condizionare l’esito della trattativa al ritorno da parte di M5s sulle vecchie posizioni antieuropee. Non a caso ieri Di Maio ha detto che gli attacchi degli eurocrati sono un motivazione in più ad andare avanti.

Chi potrebbe fare il premier?

E’ un grosso problema. Un premier politico andrebbe scelto tra i luogotenenti e l’unico che ha uno standing elevato è Giorgetti, ma per M5s l’insuccesso di Di Maio a favore di un esponente importante della Lega sarebbe una tragedia. 

Cosa farà Di Maio?

Fino all’ultimo cercherà di candidare se stesso, è la sua ultima battaglia, personale e disperata. 

Se l’accordo salta, la soluzione tecnica di Mattarella ha la strada spianata?

Proprio spianata no: il sì sarebbe condizionato alla data delle urne, forse a febbraio. Però un governo tecnico aiuterebbe tutti: consentirebbe a tutti i partiti di raccontare al paese le cose come vogliono, eviterebbe nell’immediatezza scelte economicamente dolorose, garantirebbe ai protagonisti della crisi un elettorato che li premia per andare avanti.

La strategia renziana del pop-corn, non far nulla e aspettare che gli altri vadano a schiantarsi, porta voti al Pd?

No, gliene fa perdere ancora.

Quanto tempo serve al Pd per ritornare competitivo?

Se si vota a febbraio rischi non ce ne sono: da qui ad allora il Pd non avrà risolto nessuno dei suoi problemi, anche se per risolverli basterebbero 10 minuti. 

E Berlusconi?

In sei mesi potrebbe farcela.

(Federico Ferraù)





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