GENOCIDIO DEGLI ARMENI/ Da Varujan a Dink, la memoria sfida i deserti del potere

- Vincenzo Rizzo

Oggi, 24 aprile, si fa memoria del genocidio degli Armeni. Un milione e mezzo di persone sterminate dalla Turchia di Mustafa Kemal

armenia_genocidio_1_yerevan_2017 Cerimonia a Erevan per ricordare il genocidio armeno

Il 24 aprile è il giorno in cui si fa memoria del genocidio degli Armeni. Una strage inenarrabile preceduta da massacri, vessazioni, soprusi. Una storia spesso dimenticata, messa da parte, qualche volta negata. Un fatto doloroso che suscita ancora violenza fisica o verbale contro chi osa ricordarla. Basti pensare all’omicidio del giornalista Hrant Dink del 2007 in Turchia perpetrato per intimidire le voci coraggiose e per negare l’entità dello sterminio (1,5 milioni di vittime).

O alle furiose reazioni della diplomazia turca contro Papa Francesco che usò la parola genocidio, ricordando l’accaduto nel 2015. Vale la pena citare, a tal proposito, le scellerate parole di Hitler: “Chi si ricorda oggi del genocidio degli Armeni?”, pronunciate il 22 agosto 1939 come premessa a nuovi massacri e alla Shoah. Fare memoria è dunque ancora oggi necessario come esercizio di vigilanza etica e atto di giustizia rispetto alle vittime.

Metz Yeghérn (Grande Male), così gli Armeni chiamano le sofferenze subìte dal loro popolo, a causa delle deportazioni nel deserto finalizzate alla morte, alle fucilazioni, alle violenze. L’armamentario della brutalità e dell’ottusità, tuttavia,  non ha sospeso in quel periodo “il di più” presente nel cuore di ogni uomo e massimamente in quello di chi soffre. “Ho intinto (il mio pennello) solo nel rosso del suolo della mia patria, nel suo mare di sangue”: con questi versi il grande poeta Daniel Varujan comunica la sua ferita al cuore di chi cerca il vero. E in quel periodo di mutismo di fronte ai fatti, di assenza di amore al destino di un popolo lasciato solo di fronte all’abisso del male, solo poche voci si levarono, per esprimere un giudizio vero e per far sentire vicinanza al sofferente. Grazie ad Armin Wegner, un uomo giusto, abbiamo foto e materiali che ci mettono di fronte una verità terribile. Corpi scheletrici inanimati, donne in marcia verso la morte sicura con i volti affranti, bambini ridotti a pelle e ossa: sono un grido di aiuto e di salvezza che rompe il muro dell’indifferenza dell’allora e dell’ora, rispetto ad altri dolori di uomini come noi, soggetti a dittature, povertà, guerre. Il loro richiamo straziante viene da un uomo, Wegner, che disobbedì agli ordini superiori, per indagare su quello che stava accadendo. All’infermiere tedesco non importava l’alleanza concertata tra la sua Germania e la Turchia, ma guardare il volto del sofferente, non abbandonarlo al suo destino. Posizione simile a quella dell’intellettuale francese Anatole France: prima a favore di Dreyfus, poi antimilitarista, e infine pronto a pronunciarsi a favore dei perdenti, dei senza forza, andando controcorrente, facendo da coscienza critica ai potenti chiusi nel loro torpore. Una voce solitaria nel deserto morale europeo, per certi versi simile all’insopportabile deserto che inghiottiva gli Armeni.

E il Potere produttore di deserti, che non ama gli intellettuali perché troppo liberi, troppo amanti della verità, poco servizievoli, fece sentire la sua rabbiosa voce tirannica. Il sanguinario regime arrestò innanzitutto gli intellettuali armeni e tra questi proprio Daniel Varujan, ammiratore di Ada Negri, conoscitore fine di Carducci e D’Annunzio. Varujan, che nella sua poesia aveva celebrato l’essere e la sua bellezza, l’intenso splendore che da esso promana, verrà pugnalato a morte nel 1915, dopo essere stato depredato e mutilato come la sua terra. Ma il Potere, quello di chi processa, condanna, distrugge non ha la forza per arrestare anche il “di più” di un testo poetico. Una croce di spighe fatta da mani di uomini e da vite umane resta come verità ultima e preghiera nel giorno decisivo: “Tu, questa croce di spighe, intrecciata con le mie mani/ accetta, Madre. In mezzo al mio grano/ esse oscillavano come vergini dai capelli rossi, traboccanti di sole e mature… Io le ho intrecciate, chioma su chioma/ nella croce di tuo Figlio ferito a morte/ il cui sangue, fuoco santo di ogni Pasqua/ bevono i nostri solchi ( Daniel Varujan, Il canto del pane, a cura di A. Arslan, Guerini e Associati, Milano 1992).  

Questi versi ci rendono presente, oggi, proprio oggi, una debole vita, tutta fatta di comunione viva, incisa e vibrante nel mistero del tempo: segno di tante voci che il male non è in grado di fare sparire. 

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