Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
No, non mi chiamo Ugo Foscolo, e non ho nemmeno un defunto fratello che si chiama Giovanni. Del resto, scrivere poesie mi è sempre venuto male. Ma nel mondo della scuola (e in generale) c’è stata una morte importante (anzi, due). Forse in pochi se ne sono accorti, visto che ci ha lasciato piano piano, silenziosamente, dopo una lunga agonia. Di chi sto parlando? Del tempo libero e di sua sorella noia.
Lo confesso, non mi stavano simpatici. Anzi, noi professori li abbiamo sempre odiati, almeno un po’. Come biasimarci? Credevamo fossero loro i nostri principali nemici. Nient’altro che due screanzati malandrini che rubavano il tempo dello studio ai nostri studenti. Nella nostra ingenuità, rifiutavamo persino di nominarli, tanto che al periodico appuntamento con i genitori delle nostre creature, ecco che partiva la fatidica frase: signora, suo figlio non fa niente. Niente. Ecco la parola perfetta.
Così abbiamo intrapreso una eroica crociata contro questo famigerato niente. Con sprezzo del pericolo, abbiamo caricato lancia in resta contro il vuoto del tempo libero, di cui credevamo di vedere il riflesso nell’ignoranza dei nostri studenti. Il ragionamento in sé, apparentemente, filava: bombardare di attività gli studenti ci dava la rassicurante illusione che in tal modo, finalmente, non si sarebbero annoiati.
Finalmente, ci dicevamo, li avremmo coinvolti nelle nostre lezioni con tutta una sequenza di laboratori, progetti, campus, webinar e simili variazioni sul tema. Finalmente avremmo vinto. Avremmo ammazzato la noia ammazzando il tempo libero. Chiaro: noi insegnanti avevamo, in questa furia da zeloti, la coscienza lievemente sporca. Ci imbarazzava ammetterlo, ma a volte, tra i nostri O tempora, o mores! trapelava il sospetto che almeno una piccola percentuale della colpa fosse nostra.
Per cui, a maggior ragione: forse era vagamente deresponsabilizzante, forse era un po’ barare, ma niente di meglio, per far comprendere ai nostri ostinati alunni la magia della nostra fantastica materia, che quattro o cinque incontri con esperti di settore. Poi è venuto il Covid, e il fatto che fossero – anzi, fossimo – tutti a casa ci ha dato un’ulteriore, definitiva spinta in questa direzione. Il vuoto fa male, ci dicevamo. Di questo passo impazziranno, con tutto quel niente da riempire.
La verità è che abbiamo vinto, abbiamo ucciso la noia. Dovreste darci una medaglia: abbiamo ucciso il niente. Ci abbiamo messo un po’, ma alla fine l’abbiamo avuta vinta. Certo, con qualche piccolo ricatto morale in mezzo: tra tutto il mare magnum di attività con le più diverse denominazioni, li abbiamo obbligati a interessarsi, usando la scusa delle ore e dei crediti. Ma l’immane sbronza collettiva degli anni del Covid è finita. Siamo tornati sobri. E con un gran mal di testa.
Chiariamoci, non metto minimamente in dubbio la validità culturale complessiva dei nostri sforzi di rinnovamento della didattica. Quello che però ho iniziato a vedere nei ragazzi – mai come quest’anno – è una sostanziale crisi di rigetto, non sempre del tutto consapevole, per tutto questo.
Siamo stati talmente bravi a riempirgli il tempo, che abbiamo reso gli adolescenti incapaci di gestirlo. Non sono più in grado di stare da soli con loro stessi, la lentezza li fa impazzire e, soprattutto, non hanno la pazienza per lasciar sedimentare nulla. Sicuramente, fuor di metafora, la scuola non è l’unica né la principale responsabile di una tendenza generale della società contemporanea. Certo è però che di questa cultura dello scarto non solo con gli altri, ma anche e soprattutto con il nostro stesso io, la scuola si è resa e si rende tuttora complice.
Siamo diventati bulimici nel nostro modo di gestire i silenzi della nostra vita e le mille domande di cui non cerchiamo la risposta. Non tanto perché ci siamo rassegnati al fatto che the answer is blowing in the wind, ma perché ci vuole tempo per cercarla e non ne abbiamo abbastanza: dobbiamo correre verso una nuova cosa che riempia i prossimi cinque minuti.
Forse arriverà un giorno, neanche tanto lontano, in cui rimpiangeremo la noia ed il vuoto. Penseremo con nostalgia al momento in cui i nostri ragazzi passavano i pomeriggi a non fare niente. E in cui magari, tra un niente e l’altro, avevano anche lo spazio per pensare. Vi assicuro che, se gliene lasciassimo almeno un po’, alcuni di loro sarebbero tuttora in grado di farne buon uso.
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